Franco Gheza

Quaderni di Humanitas – Brescia 1997

FRANCO GHEZA
GERVASIO PAGANI CONTINUATORE E PROTAGONISTA DEL FILONE POPOLARE DEL CATTOLICESIMO POLITICO BRESCIANO 


Il popolarismo si fonda su una specifica visione dell'uomo e della società.

Rispetto ad altre esperienze politiche e programmatiche dei cattolici, il popolarismo si caratterizza per tre aspetti qualificanti: la laicità, il pluralismo e la responsabilità civile.

Ognuno di questi aspetti è stato interpretato da Gervasio Pagani in modo coerente e appassionato.

Il primo aspetto riguarda la laicità della politica che Gervasio ha vissuto con forti motivazioni ideali, ma senza subaltemità ad alcuna forma di integralismo confessionale o ideologico. Per questo motivo poteva pretendere laicità anche dalle altre culture politiche con le quali desiderava il confronto.

Il secondo aspetto riguarda il pluralismo sociale e politico. Convinto che la persona, la famiglia, le aggregazioni sociali vengono prima dello Stato, Gervasio interpretava il pluralismo con il personale impegno nelle autonomie locali e con la militanza nell'associazionismo cattolico. Impegno e militanza significavano per Gervasio amore per la sua comunità, per il suo territorio, per il suo Comune, per i servizi sociali alle persone deboli che erano al centro del suo impegno amministrativo. L'entusiasmo che aveva per la vita, per l'impegno associativo e per il lavoro amministrativo non restavano circoscritti nella sua personalità, ma venivano comunicati e diffusi in tutte le persone che incontrava. La stessa passione veniva profusa per l'impegno sindacale e politico.

Il terzo aspetto consiste nel principio di responsabilità, nel riconoscimento del valore dei soggetti sociali e dell' impresa, dell' economia di mercato, della funzione della proprietà privata e della conseguente responsabilità pubblica per chi è chiamato alle virtù dell'imprenditorialità e della creazione di lavoro. Il personalismo cristiano era per lui il fondamento della democrazia politica e di quella economica, entrambe da difendere e sviluppare.

L'adesione a questi aspetti del popolarismo, costante storica del cattolicesimo politico bresciano, non era originata in Gervasio da una astratta ricerca accademica, ma si fondava su una seria preparazione culturale, storica e politica perseguita prima al liceo Arnaldo di Brescia e poi all'Università Statale di Milano. Le fonti che hanno sicuramente influito sulla sua personalità sono state le ricerche sulla figura di Miglioli per la sua tesi di laurea, la lettura degli scritti di don Mazzolari, la simpatia per l'opera di don Milani, l'amicizia di Padre Turoldo, la frequentazione di sacerdoti e maestri dell'impegno civile cristianamente ispirato come don Remo, don Antonio Fappani, don Mario Pasini, l'amicizia con sindacalisti creativi come Franco Castrezzati, Giovanni Landi, Dante Maffetti, Piero Lussignoli, Luigi Gaffurini, Lorenzo Paletti, con politici e amministratori esigenti come Michele Capra, Egidio Papetti, Luigi Bazoli, Mino Martinazzoli, Cesare Trebeschi. Tutti questi protagonisti lasciano intravvedere la coralità del popolarismo bresciano, declinato con continuità a livello culturale, amministrativo, sindacale e politico.

1. Nella turbolenza degli anni Settanta

Interpretare il popolarismo nel labirinto degli anni Settanta non è stata impresa facile, né sono mancate crisi e difficoltà personali e comunitarie.

I problemi di democrazia politica e di riscatto delle masse popolari si intrecciavano con le molteplici crisi provocate in positivo dall'aggiornamento conciliare e in negativo dalla diffusione ideologica che aveva permeato università e fabbriche, partiti e sindacati.

Il Concilio Vaticano II, le encicliche di Giovanni XXIII e la Populorum progressio di Paolo VI avevano spalancato il dialogo tra la Chiesa e il mondo. La Octogesima adveniens del 1971 aveva appena finito di proporre ai laici cristiani un metodo nuovo di presenza fondato sulla lettura dei «segni dei tempi», da interpretare alla luce del Vangelo per definire con responsabilità le scelte autonome da compiere.

Ma le ideologie avevano raggiunto il culmine della loro influenza. Delegati di fabbrica e militanti di partito si dividevano in base alle diverse internazionali socialiste prese a riferimento e non era facile distinguere tra l'esigenza di un forte respiro culturale ed etico dagli schematismi semplificatori a cui i gruppi e i movimenti si aggrappavano per influire sui cambiamenti che interessavano la società e le istituzioni.

Soltanto oggi, trascorso il 1989, anche il leader del PDS D'Alema può pronunciare la storica frase:
«Il fallimento del tentativo di liberare l'uomo in una dimensione puramente materialistica spinge a ricercare le ragioni etiche e spirituali dell'agire politico».

Per quanto riguarda il cattolicesimo politico, è facile concordare a posteriori con quanto le coscienze più avvedute avevano capito già negli anni Settanta e cioè che l'esperienza centrista dei cattolici democratici andava esaurendo le sue motivazioni storiche. Stavano venendo meno infatti le circostanze eccezionali che avevano imposto l'unità politica dei cattolici.

Nel contesto di una democrazia bloccata le principali culture politiche riconoscevano alla fabbrica e al sindacato un ruolo importante per la trasformazione della società, mentre l'interclassismo della Democrazia Cristiana veniva bollato come posizione arretrata dei cattolici e perfino la dottrina sociale veniva ridotta al rango di moralismo debitore all'ideologia liberale per quanto riguarda i principi di democrazia e al marxismo per quanto riguarda l'analisi economica e la lotta di classe. Uno dei sindacalisti più influenti della Cisl del tempo, Pippo Morelli, arrivava a fare una lettura tanto parziale della dottrina sociale da derivarne la scelta socialista per i cristiani.

Da parte della stessa fonte sindacale si lamentava la mancanza di una valida alternativa politica per il voto dei cattolici perché «il partito socialista lasciava parecchi dubbi» e «le simpatie per tal une tesi più avanzate dei movimenti nuovi, MPL, PSIUP, Manifesto, non si trasformavano in voti».

Gli stessi teorici del protagonismo sindacale pensavano che i lavoratori cattolici, permeati da tanti anni di anticomunismo, non potevano passare direttamente ad una scelta per il PCI, costantemente sospettato di comportamento settario verso i militanti cattolici.

Il voto alla DC veniva imputato ad inerzia culturale e politica, frutto automatico dell'ambiente sociale e dell'illusione che la sinistra DC potesse svolgere un ruolo di trasformazione di questo partito in senso più popolare e sociale.

Era percepito, ma sottovalutato, il rischio che la radicalizzazione dell' autonomismo del sindacato e la sua volontà di far politica in proprio (su basi per di più radicali e ideologiche) sviluppasse una spinta antipartitica nella versione pansindacalista, velleitaria o addirittura antiistituzionale.

Il cattolicesimo politico bresciano opponeva resistenza di fronte al radicalismo sindacale che aveva permeato molte categorie dell'industria, ma a livello nazionale veniva interpretata come un tentativo di ristabilire nuove forme di collateralismo tra partiti e sindacati. Erano state costituite nei luoghi di lavoro, accanto ai consigli di fabbrica e alle tradizionali cellule del PCI, anche le strutture di base dei partiti di governo come i NAS dei socialisti e i GIP dei democratici cristiani. Il recupero del retroterra sindacale non aveva solo un significato di tipo elettorale, ma rappresentava anche l'esigenza di imprimere una sollecitazione più «sociale» e «popolare» ai partiti di massa.

Il fronte sindacale contestava alla DC la legittimità di rappresentare il mondo cattolico, ritenendo che questa fosse la causa dell'emarginazione di tutti i gruppi e i movimenti che non si riconoscevano in questo partito e che avevano maturato un diverso impegno sociale, convinti che i lavoratori cattolici (considerati come categoria sociologica) fossero approdati ad una taumaturgica coscienza di classe.

Anche la proposta berlingueriana di compromesso storico era vista da alcuni dirigenti sindacali della CISL come un ostacolo capace di bloccare tutto il processo di cambiamento immaginato.

Perfino le drammatiche vicende del referendum contro il divorzio (12 maggio 1994) venivano salutate come liberatrici e capaci di far «capire» cosa stava succedendo nel mondo cattolico e di far ricredere soprattutto il PCI delle critiche rivolte ai movimenti «spontaneisti».

2. Una testimonianza difficile e combattiva
Era convinzione diffusa invece nel cattolicesimo politico bresciano, e in Gervasio in particolare, che la democrazia ha i suoi argini e questi sono le istituzioni.

«Se gli argini tengono - scrive P. Sorge - il fiume della politica scorre sicuro nell'alveo, irriga e feconda. Ma se gli argini cedono, le acque escono dal loro letto naturale, inondano spazi indebiti, seminano smarrimento e provocano guasti».

I due principali canali di partecipazione politica a disposizione dei lavoratori che Gervasio aveva imparato ad apprezzare erano sia il sindacato che il partito politico.

Nonostante la crisi, anzi per superarla, i partiti dovevano mantenere la loro funzione politica insostituibile delineata nell'art. 49 della Costituzione. Il loro compito doveva essere soprattutto educativo, per formare i cittadini a comprendere i cambiamenti e a seguire l'evoluzione della vita politica. I lavoratori e tutti i cittadini dovevano essere in grado di partecipare responsabilmente alla elaborazione e al controllo della politica locale e nazionale, captando problemi, bisogni e attese per trasferirli nelle istituzioni, attraverso l'impegno per le riforme.

La catena di attentati che avevano già scandito torbidamente la vita italiana, da piazza Fontana a piazza della Loggia, era il segno di trame contro la democrazia, organizzate con collegamenti politici e con l'incapacità dello Stato di prevenire le minacce alla costituzione repubblicana.

A questo disegno si contrapponeva la reazione unitaria di grandi masse popolari, con la guida dei sindacati e dei partiti democratici che esprimevano su tutte le piazze d'Italia la condanna e l'isolamento nella coscienza civile del terrorismo eversivo.

In quei difficili momenti si era dovuto constatare che da molte parti non era più riconosciuta al partito della Democrazia Cristiana la sua matrice popolare, la sua funzione ideale e politica.

Gervasio temeva il ripiegamento integralista, la scarsa importanza data al dialogo con le altre forze politiche, il giudizio quasi qual unqui sta sulle alleanze, il centro sinistra e il centro destra come varianti intercambiabili della stessa politica.

Dopo il voto referendario del 12 maggio occorreva riflettere, con Giuseppe Lazzati, sulla necessità di ridefinire il ruolo della DC nella società italiana per riformulare la sua prassi politica con un netto rifiuto delle tentazioni confessionali e integraliste.

Il discorso sul compromesso storico doveva riproporre, a chi non accettava di scadere sul terreno di una polemica spicciola, il problema di una corretta valutazione dei momenti più significativi di collaborazione tra cattolici e comunisti che erano stati alla base della Costituzione repubblicana e della prospettiva di unità sindacale, per arrivare ad una logica di cambiamento, di trasformazione della società, investendo tutte le forze politiche democratiche a partire dalla Democrazia Cristiana.

«La società reclama con la sua stessa crescita una alternativa ad una politica di potere lontana dalla realtà; la DC deve cambiare indirizzi, metodi, uomini per restare fedele alla tradizione di un partito popolare, democratico, antifascista» .

Così scriveva Gervasio in una relazione per i lavoratori democristiani della fabbrica OM.
L'adeguamento delle istituzioni alla crescita sociale, una decisa opzione per l'unità sindacale, il richiamo al carattere popolare del partito, ai suoi antichi e rinnovati legami con le espressioni del mondo operaio e contadino, l'accettazione di quanto di innovativo e unitario aveva espresso la classe lavoratrice tra gli anni Sessanta e Settanta, erano gli argomenti che Gervasio usava per far crescere nel partito la convinzione che l'unità del mondo del lavoro doveva preparare un dialogo maggiore tra le componenti politiche che storicamente si rifacevano al movimento operaio. Il retroterra sindacale doveva essere un punto di forza per rinnovare la politica, per tenere al centro i temi del mondo del lavoro e per ricostruire il quadro politico di riferimento.

Bisognava quindi rinforzare la dialettica e l'elaborazione all'interno del sindacato perché i contenuti e le strategie, costruite con una difficile azione di sintesi, potessero divenire un punto di riferimento per la stessa dialettica interna ai partiti.

«Il programma del partito - diceva - si costruisce in relazione alla dialettica delle forze sociali e il militante sindacale può contribuire a modificare il quadro politico non solo attraverso le idee che esprime all'interno del partito a cui è iscritto, ma anche attraverso le posizioni che contribuisce a determinare nel sindacato e le conseguenti ripercussioni che si hanno nel contesto più generale di cui lo stesso partito deve tener conto».

Si trattava di realizzare un equilibrio complesso e delicato, scevro da suggestioni pansindacaliste, ma anche da subalternità alla logica partitocratica.

Le aggregazioni politiche a livello di fabbrica non dovevano ricadere nel metodo della cinghia di trasmissione nel suo aspetto più negativo, quello cioè di far passare come primato della politica il primato del partito, inteso come momento unificante di un complesso di articolazioni sociali alla cui logica tutto viene subordinato. Era necessario salvare la funzione della Democrazia Cristiana, nata non a caso nella Resistenza e chiamata a continuare con alleanze adeguate una politica di progresso.

Nel dicembre 1974, nella relazione al direttivo della FLM, il segretario Luigi Gaffurini stende con Gervasio i principali passaggi politici.

«Il quadro di centro-sinistra che l' on. Moro cerca di ricomporre - è scritto in quella relazione - mantiene un grande significato di garanzia e di tenuta democratica; pur tuttavia, alla luce della crisi continua che lo ha contraddistinto in questo ultimo quinquennio, ci chiediamo se non sia avviato verso un esaurimento difficilmente redimibile».

«Non crediamo si debba parlare di fallimento del centro sinistra, ma appunto di esaurimento per una inadeguatezza ad affrontare le novità politiche emerse nella società e nel mondo del lavoro soprattutto dopo il 1969».

La capacità sindacale di proporre un nuovo modo di realizzare i servizi sociali e le riforme era determinante «non solo al fine dell'arricchimento del pluralismo e dell'articolazione democratica, ma anche come momento di verifica dell'aderenza delle forze politiche popolari alle aspirazioni dei lavoratori».

Da quella relazione traspariva chiaramente la convinzione che il soggetto destinato a portare avanti la linea del rinnovamento per uscire dalla crisi e per governare il Paese era la sinistra; erano le forze che esprimevano politicamente un rapporto con le realtà operaie e popolari.

«È il partito comunista, è il partito socialista, sono le componenti più creative della cultura marxista e cattolica, è la stessa sinistra DC in quanto può e vuole ritrovare un collegamento con la parte più viva del mondo operaio».

Il fondamento per una democrazia avanzata, per debellare ogni pericolo di direzione autoritaria e per realizzare equilibri sociali diversi era la costruzione dell'unità delle forze popolari, impossibile finché non fosse stato superato l'anticomunismo del 1948.

In questa direzione, del resto, sembrava muoversi l'orientamento emerso nel Comitato Centrale del Partito Comunista, dove l' on. Berlinguer aveva lanciato il «compromesso storico» come confronto culturale e politico fra le componenti popolari e democratiche della società italiana per portare soluzioni nuove ai problemi del Paese e alla sua direzione politica, cementando e rafforzando l'unità del popolo.

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