Giorgio Sbaraini

Città e dintorni – Numero 5 del 1987Ricordo di Gervasio Pagani
Di Giorgio Sbaraini



Aveva imparato tardi a guidare “Mi fa un po’ paura” confessava quasi presago. 
Alla fine, dopo che era diventato segretario provinciale della DC, con la necessità di spostarsi senza scomodare qualche amico si era deciso a prendere la patente, vincendo un’antica riluttanza.

Gervasio Pagani, di lui parlavo, è morto proprio in un incidente stradale: un orribile schianto su una strada lontana, quattro vite dissolte in un attimo, un modo di morire così usuale ai giorni nostri e tuttavia con i contorni e la cupezza d'una tragedia greca. Sono andato a Coccaglio per i funerali in un torrido pomeriggio di metà luglio. Quando le quattro bare portate in spalla dagli amici - quella di Gervasio prima, per ultima la bara di Emanuela, la moglie, in mezzo le due piccole bare banche delle due bimbe, Francesca ed Elisabetta, che a guardarle stringevano il cuore - quando sono entrate nella chiesa gremita di gente, fendendo la folla assiepata sulla piazza, è stato come se il paese fosse tutto lì, a stringerle in un ultimo abbraccio. Sì, perché il paese ”qualsiasi paese” conserva ancora oggi la vocazione a vivere in comune le gioie e i dolori.

E Gervasio, a voler guardare, era restato un gnaro di paese - con tutto quello che implica, sul piano della mentalità e dei rapporti - con dentro una sua orgogliosa "paesanità" mai rinnegata, come legame di sostanza, per nulla convenzionale, e come richiamo alle radici portato sottopelle e che in quel pomeriggio, sotto un cielo improvvisamente incupito, il suo paese fosse lì, a testimoniare un identico legame, non mi ha affatto stupito, stava nell’ordine naturale delle cose e dei rapporti, voglio dire.

C’era e forse c’è ancora, scampato all’assalto dei tempi un modo di dire della Bassa, riguardante la morte, che mi è sempre parso impastato di pietas e di incredibile serenità: ” è andato a stare via” si diceva di chi ha superato la soglia del nulla. Ecco, Gervasio, il professorino colto prestato alla politica, e i suoi cari sono andati a stare altrove, uniti come prima: e non erano finte le lacrime sui volti dei compagni di scuola delle due bimbe, neppure sapeva di convenzionale il breve ricordo, schivo e sommesso, degli alunni di lui, che parlavano di insegnamento "ad amare la vita e la gente, a volerle entrambe dignitose e consapevoli”.

E' stato lì, davanti alle bare e alla gente, che m’è tornato in mente mio padre, restato in paese, per quanto lo esortassimo, essendo malato, a venire a vivere dove minore era il soffoco d’estate e più rara la nebbia d’inverno. "Lasciare il paese? -diceva- Voi siete tutti matti. Andare in un posto nuovo, già: e quando muori, chi vuoi che ti venga dietro fino al camposanto, se ti conosce nessuno?

Gervasio era nato nel ‘51 a Coccaglio, nella strada parallela al Vialone. Primo di tre figli che ancora piccoli avevano perso il papà, tirati grandi e fatti studiare dalla madre, a costo di duri sacrifici. Lui si era laureato in lettere alla statale di Milano con una tesi su Miglioli e sulle lotte contadine nel cremonese.

Alla politica, bruciante passione della sua vita, s'era avvicinato giovanissimo, democristiano di Forze Nuove, la corrente di Donat Cattin e, a livello locale, di Michele Capra, di Sandro Fontana, di Lussignoli e Landi, per poi staccarsi, e dar vita, qui a Brescia, al gruppo bodratiano. Recava in se, bisogna dirlo, il senso austero della vita mai venuto meno, persino una certa vocazione al calvinismo. Quando lo incontravi, era capace di inchiodarti lì per delle mezzore, sottile e irruento, conciso e subito appresso incontenibile, a parlarti della "sua" Dc, popolare e aperta, un partito di sinistra, costretto suo malgrado a fare i conti con le propri anime diverse, non di rado addirittura contrapposte.

No, non aveva grandi propensioni alla diplomazia: sapeva - anzi era solito - mostrarsi schietto fino alla brutalità: "la diplomazia - mi disse una volta che avevo bonariamente censurato una sua presa di posizione - preferisco lasciarla ai cardinali di curia e di partito". Difatti non usò i mezzi toni al congresso nazionale del Biancofiore dell'80, quando - dentro a quella sorta di acquario in ebollizione dell'Eur - prese la parola per richiamare il suo partito alla necessità del confronto con il Pci, con una parte della platea a coprirlo di insulti e a tentar di zittirlo e lui duro e ferrigno, pallido e quasi sprezzante, a ribadire - tra le bordate di fischi, roba da stadio o da palasport -le sue convinzioni, con l'aria di chi ha già scelto il martirio come suprema testimonianza, per una politica senza cautele, a costo di essere lacerante, se il prezzo da pagare alla coerenza è quello.

Trovarselo contro, nelle guerre di partito, non era sempre gradevole: sapeva essere ruvido e sferzante. Chi avrebbe detto che era lo stesso con cui potevi far tardi, davanti a un bicchiere, e parlare di tutto, di libri e di cinema, magari anche di football, e rifare il verso a questo e a quello, si trattasse di amici o di avversari?

Per tutta la vita, Gervasio ha lavorato come professore, insegnante di storia e filosofia, con orgoglio rabbioso di chi neppure concepisce che si possano pretendere posti e prebende alla politica, e dunque passa la vita tenendo ben separati i due ambiti. Tutto questo va sottolineato per rispetto della verità: voglio dire che parlando di lui, non c'è bisogno di scomodare le bugie - pelose e pietose - che ogni tanto si rimescolano in articulo mortis per qualcuno: "falso come una lapide" si dice infatti nel dialetto romanesco: e però, stavolta non servono bugie di sorta, non piaggerie o invenzioni di comodo, perché la sua vita - segnata dalla passione politica e da una vocazione etica mai neppure scalfita - offre un quadro di pulizia interiore, di comportamenti mai sfiorati da ombre: e non di tutti si può dire con l'identica sicurezza di non essere smentiti.

Ecco, io credo di volerlo ricordare così, come era in realtà: il professorino con le ansie di giustizia, con le impazienze e le insofferenze, ma anche con gli slanci generosi, l’umanità profonda, l’onestà e la inadattabilità ai compromessi.. Sono - lo dico sommessamente, per non cadere in retorica - i fiori della memoria che lascio sulla tomba, a un caro amico dal destino crudelmente segnato...

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