Pietro Scoppola

Quaderni di Humanitas – Brescia 1997
PIETRO SCOPPOLA
IL CAMMINO DI UNA IDEA 


Il mio ricordo di Gervasio Pagani è legato ai tanti incontri promossi dalla Lega democratica e dalla rivista «Appunti di Cultura e di Politica», spesso nella sua Brescia, ai quali egli portava il meglio della sua intelligenza politica e del suo impegno civile: ai margini di quegli incontri quante conversazioni amichevoli, quanti scambi di esperienze! 
Allora la parola «lega» non aveva assunto le sinistre risonanze attuali, minacciose per l'unità del Paese, e aveva ancora il suo sapore tradizionale legato alla storia della sinistra italiana, e alle sue componenti di ispirazione cattolica. Era una fase non lontana nel tempo che ci appare tuttavia, per la densità degli eventi intercorsi e per l'accelerazione dei processi di cambiamento, relegata in un passato quasi remoto.

La nostra iniziativa, si era mossa sulla scia della «terza fase» morotea: avevamo riassunto il nostro obiettivo nella formula della «cultura dell'intesa». Pensavamo di dare un seguito alla stagione del «confronto» aperto dalla iniziativa di Zaccagnini ponendo l'accento sui contenuti, sulla cultura appunto, che avrebbe dovuto ispirare quella fase della politica italiana, per sottrarla alle tentazioni sempre presenti nella classe politica di una gestione tutta e solo tattica.

Quando nacquero gli «Appunti di cultura e di politica» Aldo Moro era appena stato assassinato. Pensavamo che ci fosse una eredità da non disperdere, una intuizione valida da sviluppare. Il ricordo di Gervasio riporta spontaneamente al ricordo di Moro.

La prima reazione che emerge spontanea, prima di ogni altra riflessione, ripensando a quel che è legato al nome di Aldo Moro è il rimpianto e direi la nostalgia per una politica colta, misurata, educata, perfino aristocratica, capace di fare appello alla ragione e ai valori morali; mai gridata, mai sollevatrice di passioni e di istinti volgari, consapevole soprattutto dei limiti della politica: «la politica deve essere conscia del proprio limite - aveva affermato Moro nel XIII congresso della DC il 20 marzo 1976, riflettendo sulle trasformazioni impetuose della realtà italiana - pronta a piegarsi su questa nuova realtà che le toglie la rigidezza della ragione di Stato per darle il respiro della ragione dell'uomo». Una riflessione e una azione politica, quella di Moro, sempre in bilico fra la lucida e realistica consapevolezza dei limiti imposti dalla realtà ma mai appagata nei limiti: già in uno scritto nel '43 sulla Stato aveva avvertito ed espresso «il dolore dell'uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe». Il «principio di non appagamento» era stato per lui una regola di condotta.

La nostra iniziativa si muoveva sul piano etico e culturale entro quel solco.

Certo - possiamo dirlo oggi con franchezza - non avevamo del tutto chiaro l'esito finale di quell'impegno. Cosa era stata e cosa doveva diventare la «terza fase» teorizzata da Moro? Roberto Ruffilli, un'altra vittima illustre della Brigate Rosse, proprio sulle pagine di «Appunti», si esercitò in una acuta interpretazione della terza fase.

Come è noto, l'espressione venne usata per la prima volta da Moro, con riferimento alla DC e non alla politica italiana nel suo insieme, nel discorso al Consiglio nazionale della DC del 20 luglio 1975 nel quale fu eletto segretario Benigno Zaccagnini: Moro collegava lo «spostamento a sinistra» del paese ai processi di liberazione del mondo giovanile, della donna e del mondo del lavoro, che non erano stati il risultato di un'azione dei partiti ma un complesso processo di autodeterminazione della persona e della società. La conseguenza afferma Moro rivolgendosi ai suoi amici di partito - è che «l'avvenire non è più in parte nelle nostre mani»: è cominciata appunto una «terza difficile fase per la Democrazia Cristiana». La terza fase si definiva dunque per l'emergere di nuove dinamiche sociali che avevano messo in crisi il ruolo di rappresentanza e di guida della Democrazia Cristiana nella società italiana.

Ma all'indomani delle elezioni politiche del 1976 la formula «terza fase» assunse un più ampio e comprensivo significato: dalle elezioni erano usciti «due vincitori»; la DC aveva recuperato consensi ma l'avanzata del Partito Comunista non era stata arrestata. Moro, in un articolo che compare nel dicembre dello stesso anno sotto il titolo Riflessione, sottolinea la necessità per tutti i partiti italiani, di una «attenzione» e di un dialogo non solo, ma anche, fra DC e PCI. La «terza fase» non è riferita solo alla DC ma investe tutto il sistema ed è dunque in qualche modo una fase di stallo per il venir meno degli equilibri politici preesistenti e per la mancanza di alternative definite, ma non di immobilità inerte: essa esige piuttosto «forme di coinvolgimento - ha notato Ruffilli - delle culture e delle forze, legate alle masse popolari e piccolo borghesi, nell'opera comune per l'incanalamento del cambiamento all'interno dei fini e dei mezzi della democrazia repubblicana». Incerto rimane nel pensiero di Moro l'esito finale del processo: anche nella interpretazione proposta da Ruffilli del pensiero di Moro vi sono sotto questo profilo significative oscillazioni.

Eravamo partiti da lì: da quel momento e da quel coinvolgimento inteso come un passaggio necessario e fecondo per lo sviluppo della democrazia italiana e ci proponevamo di dare un contributo culturale a quella ricerca.

Quando Gervasio, dieci anni fa, in un tragico incidente d'auto fu inesorabilmente falciato dalla morte con la sua giovane famiglia, eravamo proprio alla vigilia di una svolta nella piccola ma intensa e degnissima storia del nostro gruppo di allora.

Alla fine dell'88, a poco più di un anno dalla sua morte, pubblicammo su «Appunti» le «dieci tesi per l'alternanza», che annunciarono e prepararono la fase referendaria per la modifica del sistema elettorale, per svincolare il Paese dall'immobilismo e dalla corruzione in cui lo aveva spinto il sistema proporzionale, che pure aveva svolto, nella prima fase della storia repubblicana, una grande funzione democratica.

Vi era stata ai nostri occhi una discontinuità fra una «fisiologia della forma partito» e una vera e propria «degenerazione patologica» dei partiti. La morte di Moro era stata proprio il punto di svolta tra il primo e il secondo periodo. Il primo periodo, in mezzo a contraddizioni e momenti di caduta evidenti, era stato tuttavia quello dello sviluppo possibile delle potenzialità della democrazia italiana. Insisterei su quel «possibile». La democrazia italiana non poteva svilupparsi che così, per ampliamenti successivi dell'area di governo - dal centrismo, al centro sinistra, alla solidarietà nazionale - e con il coinvolgimento progressivo di nuove realtà popolari nella vita dello Stato; in questo processo i partiti politici avevano svolto un grande ruolo.

Il periodo successivo assumeva invece le forme degenerative ben note della partitocrazia e della corruzione elevata a sistema.

Abbiamo in molti ritenuto che la preoccupazione per la fragilità della democrazia italiana, certamente valida sul piano storico per la lunga stagione che va dal centrismo degasperiano alla solidarietà nazionale, potesse ritenersi superata alla fine degli anni Ottanta e che fosse giunto il momento di passare per il nostro Paese a una forma più matura di democrazia, quella appunto della democrazia dell'alternanza. I referendum elettorali potevano essere lo strumento efficace per superare il «paradosso della riforma» per cui quanto più il sistema ha bisogno di una riforma tanto meno è capace di farla.

Ci eravamo convinti che, nel quadro dei grandi eventi che già travagliavano il mondo comunista e che avrebbero portato da lì a poco al crollo del muro di Berlino, fosse necessario spingere la democrazia italiana verso una compiuta forma di alternanza che consentisse di riattivare il ricambio della classe dirigente.

Fu una svolta o uno sviluppo organico dell'impegno precedente?

Gervasio avrebbe condiviso quella scelta?

Ricordo, in un caldissimo giorno del luglio 1989, la pessima accoglienza che l'idea di promuovere i referendum per la riforma elettorale ebbe da parte di alcuni esponenti del gruppo del «Confronto» quando, con alcuni amici andai ad esporla, invitandoli a far propria l'iniziativa.

Penso che Gervasio non avrebbe condiviso quella reazione negativa di esponenti della sinistra DC che erano stati ed erano il suo punto di riferimento.

Intuivamo allora quel che poi si è verificato al di là di ogni possibile previsione. Il passaggio, mediante il maggioritario, ad un sistema politico tendenzialmente bipolare avrebbe messo in crisi l'unità della DC e con essa l'unità politica dei cattolici.

Avrebbe Gervasio accettato di percorrere quella strada? Egli era radicato come pochi nella tradizione culturale della Democrazia Cristiana, intesa appunto più come tradizione che come partito: era in uso fra noi l'espressione «cattolicesimo democratico» proprio per dare rilievo ad una distinzione dal partito e dalla forme contingenti che esso aveva assunto. Gervasio sentiva con forza questa distinzione e avvertiva che il compimento del ruolo storico che la Democrazia Cristiana aveva svolto come asse centrale della politica italiana era quello appunto della costruzione di una democrazia compiuta.

Di fatto fu favorevole alla linea riformatrice della segreteria De Mita nella sua prima fase e critico severo della involuzione successiva che avrebbe portato a ridurre l'alternanza al ben più modesto «patto della staffetta», poi non rispettato, ad una alternanza cioè interna all'area di maggioranza nella guida del governo.

Ma non voglio «prestare» a Gervasio Pagani idee maturate in seguito nel nostro gruppo: penso che sia doveroso notare nella sua formazione e nel suo impegno politico la presenza di elementi che avrebbero potuto portare nella direzione che noi percorremmo. Ma è impossibile attribuirgli scelte e orientamenti maturati dopo la sua morte. 

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