Lorenzo Paletti

Quaderni di Humanitas – Brescia 1997
LORENZO PALETTI
GERVASIO E L'ESPERIENZA SINDACALE DEGLI «AUTOCONVOCATI» 


Nella seconda metà degli anni Settanta l'inflazione in Italia veniva misurata con due cifre. All'inizio del 1984 il Governo avviò un confronto con il Sindacato e la Confindustria per trovare dei correttivi efficaci all'andamento del costo del lavoro.

L'idea prevalente mirava a frenare i salari attraverso le limitazioni all'automatismo della scala mobile, strumento tradizionale per l'adeguamento delle retribuzioni al costo della vita.

L'intenzione del Governo guidato da Craxi, aveva provocato una forte reazione nei luoghi di lavoro. Le trattative di vertice e lo stentato dialogo con la base sindacale produsse una reazione violenta da parte degli «autoconvocati», cioè di un rilevante numero di delegati dei Consigli di Fabbrica che diedero vita ad un coordinamento e a una mobilitazione autonoma, fortemente dialettica nei confronti della dirigenza nazionale del sindacato.

I delegati della fabbrica OM-IVECO di Brescia, sia della CIS L che della CGIL, furono i promotori del gesto di ribellione. Il fenomeno contagiò rapidamente altre fabbriche e assunse dimensione nazionale in tempi brevi.

A nulla valsero gli appelli alle segreterie nazionali di CGIL, CISL e UIL per sospendere la trattativa. Nella notte di San Valentino il confronto triangolare tra Governo, Sindacati e Confindustria si concluse nel peggiore dei modi.

Al decisionista Craxi riuscì di presentarsi come l'uomo forte di cui l'Italia aveva bisogno. La posta in gioco non riguardava soltanto l'inflazione ma anche il tentativo di sgretolare il fronte coeso del lavoro dipendente. Di fronte al decreto governativo che decurtava le buste paga il sindacato si divise drammaticamente: mentre CISL e UIL sottoscrissero l'accordo del 24 febbraio la CGIL non si associò al taglio dei tre punti di contingenza.

Con la convergenza di Craxi, Camiti e Benvenuto, l'unità sindacale ricevette una ferita ancora oggi non del tutto rimarginata.

L'esperienza sincera e convinta degli autoconvocati della FIMCISL fu vista con sospetto e fastidio dalla FIM e dalla CISL Nazionali. Considerati subalterni alla politica della FIOM, quei delegati rischiarono di essere espulsi dalla confederazione per il fatto di aver promosso obiettivi e lotte non condivise dal vertice.

In un clima sociale e politico fortemente dialettico, gli autoconvocati intervennero responsabilmente in varie circostanze con dibattiti, convegni e manifestazioni, per sostenere le proprie ragioni.

Ritenevano innanzi tutto necessario ricomporre le lacerazioni pericolosamente diffuse tra i lavoratori e battersi per un sindacato unito, autorevole, fondato su una democrazia rispettosa di regole condivise, pluralista, partecipato, quindi veicolo privilegiato per elevare i lavoratori a classe dirigente.

Inoltre, rispetto a una pesante e strutturale crisi economica che stava mettendo a dura prova il Paese, era sì necessario dare la propria disponibilità a sopportare sacrifici, ma a fronte di contropartite verificabili, orientate a ridurre concretamente la disoccupazione e il debito pubblico.

La proposta alternativa alla riduzione del costo del lavoro era quella del contenimento dei costi dello stato sociale. Questi erano i costi che dovevano rientrare nei limiti tollerabili, attraverso una severa azione di risparmio e di oculata redistribuzione delle risorse disponibili verso le esigenze primarie e le vere situazioni di difficoltà e bisogno. In tal modo si anticipavano le caratteristiche di una riforma dello stato sociale fondata sui principi della responsabilità e della solidarietà.

Se questi erano gli intendimenti degli autoconvocati, Gervasio Pagani non solo li condivideva ma, spinto dalla sua sensibilità sociale e politica, ne era in parte protagonista.

Posso testimoniare che seguì quell'avvenimento con notevole passione, ma nel rispetto dei ruoli.

Molte erano le ragioni della sua attenzione a quel fenomeno sociale.

Con i delegati FIM-CISL della OM-IVECO, impegnati in quella battaglia sindacale, esisteva un' amicizia collaudata e un' affinità di intenti, originate dalla medesima appartenenza associativa nelle Acli e partitica nella Democrazia Cristiana.

Gervasio era un insegnante attento alle problematiche sindacali; era un intellettuale organico, come si sarebbe detto altrove. Per questo fu accusato di operaismo, per il piglio e la scrupolosità con cui difendeva le proprie convinzioni relative a tematiche di vitale importanza quali l'autonomia, la democrazia e l'unità sindacale.

Più volte ribadiva che era sbagliato utilizzare una militanza sindacale per costruire alternative politiche ai partiti popolari; che era compito di un sindacato democratico ed in particolare della CISL favorire la cultura dell'intesa anziché quella della divaricazione e dello scontro; che l'esperienza della solidarietà nazionale doveva integrare la coesione in ambito politico con l'unità sul versante sindacale.

Fortemente preoccupato della frattura provocata dall'accordo separato sul costo del lavoro, si rivolse alla CIS L in questo modo:
«La compattezza del mondo del lavoro è un valore prezioso da salvaguardare e non da sacrificare per un disegno che rischia di essere funzionale agli interessei elettoralistici del Psi di Craxi»; e ancora, «i lavoratori della CISL non possono consentire che sulla loro testa si tenti di trasformare l'organizzazione in un sindacato socialdemocratico, collaterale alla strategia socialista» .

Bisogna ricordare che Gervasio Pagani pronunciava queste frasi nel 1984, quando era Segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Gervasio seppe dimostrare anche da quella posizione il suo coraggio, quasi spregiudicato, pur di non rinunciare ai personali convincimenti.

Indipendentemente dalle convenienze derivanti dalle proprie funzioni e responsabilità, cercò di interpretare l'idea di un partito aperto al dibattito culturale e alla lotta sociale accogliendo quindi le preoccupazioni e le proposte degli autoconvocati, non esitando a richiamare e a sollecitare il vertice nazionale del suo partito, in modo particolare la sinistra interna, affinché contribuisse all'individuazione di una soluzione politica ai problemi sorti.

Gervasio era perfettamente cosciente che il prelievo forzato sui salari, per mezzo del decreto sulla scala mobile di circa tremila miliardi, era largamente insufficiente a rispondere adeguatamente alla carenza di lavoro e al contenimento dell'inflazione.

Per questo si sforzò di sottolineare e spiegare:
«l'inadeguatezza della politica economica del governo Craxi ad aggredire la disoccupazione strutturale, ad arginare la voragine della spesa corrente dello Stato senza introdurre uno stile etico abbinato al concetto delle priorità nell'utilizzo e nella destinazione delle energie finanziarie, a dotarsi di uno strumento fiscale equo e rigoroso»; «la necessità di programmare il rientro dell'inflazione dove i sacrifici economici degli occupati fossero compensati da risultati certi di sviluppo e di crescita»,

Gervasio non mancò di smascherare e rintuzzare certi sprezzanti giudizi di alcuni imprenditori, ricordando loro che le aziende, oltre a far quadrare i bilanci, dovevano anche svolgere un compito sociale, interessandosi delle difficoltà dei lavoratori e delle rispettive famiglie.

In quel periodo Gervasio agì con la generosità tipica del militante, con la pazienza e l'intelligenza proprie del formatore di coscienze, sensibile ai veri valori, con le doti del politico di razza che analizza, propone e ricerca soluzioni anteponendo l'interesse generale a quello di parte.

Questa è stata la sua grande lezione. 

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