Guido Bodrato

Quaderni di Humanitas – Brescia 1997
GUIDO BODRATO
IL 'LABORATORIO POLITICO' DI BRESCIA 


Si è parlato a lungo di un «partito di lotta e di governo», al fine di mettere in evidenza le difficoltà e le speranze di una forza politica (il Pci) che perseguiva l'obiettivo di una radicale trasformazione della società, ma che aveva maturato la consapevolezza di doversi assumere anche concrete responsabilità. 
Questa formula ha riguardato, specularmente, anche la Democrazia Cristiana, ed in modo particolare quegli uomini che sentivano il «dovere di governare», ma che nello stesso tempo sentivano l'esigenza «di essere opposizione a se stessi» e concorrevano a tenere viva quella volontà di cambiamento che ha segnato, all'origine, la formazione del partito di ispirazione cristiana. Quando si è indebolita la memoria di questa ispirazione rivoluzionaria ed è prevalsa la convinzione che la politica sia essenzialmente «amministrazione del potere», è iniziato l'irreversibile declino della Democrazia Cristiana.

Si può parlare di anomalia, di «caso italiano»; si è imputata questa situazione al «bipartitismo imperfetto» imposto dalla guerra fredda e considerarlo responsabile del consociativismo che - secondo alcuni politologi - ha segnato la fine della prima repubblica. Tuttavia, bisogna riconoscere che in questa «democrazia difficile» si esprimeva anche la straordinaria vivacità della politica italiana, e la volontà di sviluppare un confronto sui problemi reali della società che non restasse prigioniero delle ideologie o dei giochi tra le «grandi potenze» che dominavano il mondo.

In questa situazione, per il cattolicesimo democratico Brescia è stata un laboratorio; e lo è stata in particolare perché questa città ha sperimentato un dialogo straordinariamente ricco di spunti tra la componente «sociale» e quella «politica» della sinistra democristiana, tra un gruppo di amici che rappresentavano una consistente realtà operaia, di fabbrica, ed un gruppo di amici «intellettuali» che avevano conquistato un ruolo professionale di rilievo nella vita della città. Potremmo anche parlare di cattolicesimo sociale e di cattolicesimo liberale. Questi due filoni di pensiero e di azione politica si sono intrecciati nella vita quotidiana, sia dal periodo della Resistenza, e sono rimasti ben radicati nel mondo cattolico bresciano.

Il mio ricordo va alI' on. Michele Capra ed a ciò che la sua elezione in parlamento ha rappresentato per i lavoratori cristiani di Brescia, ed alI' on. Franco Salvi, insostituibile punto di riferimento per ogni iniziativa volta a riscoprire le radici etiche della politica. Ma non sono gli unici amici ai quali penso con nostalgia.

Per comprendere l'importanza, non solo locale, di questa esperienza, è sufficiente ricordare il ruolo che hanno avuto i sindacalisti «bianchi» dell'OM nelle vicende nazionali del gruppo Fiat e, più in generale, nella storia dei metalmeccanici. Quando l'aziendalismo emarginò la presenza della Cisl negli stabilimenti torinesi, gli amici di Brescia diventarono il punto di forza del sindacato democratico. Nelle due «Conferenze Operaie» promosse dalla Dc (a Bergamo nel '69, e a Torino nel '76) i giovani bresciani dettero un contributo decisivo allo svolgimento di quelle iniziative, che non a caso si svolgevano nel pieno della «contestazione giovanile» e nel tempo di avvio della «solidarietà nazionale». Oggi si mettono insieme «moderazione» e «riformismo», ma allora - nella discussione politica e nella stessa Dc - queste parole segnavano spesso un punto di conflitto; era difficile essere operai nella Dc, era difficilissimo essere democristiani nelle fabbriche.

Per riflettere a fondo sulla testimonianza politica di Gervasio Pagani è necessario - a mio parere - riferirla a questa realtà popolare; di questa realtà Gervasio è stato un appassionato ed autorevole rappresentante. Cresce in quel gruppo, lì ha la maggior parte degli amici fraterni con i quali si educa alla politica; interpreta le esigenze di un movimento radicato nelle fabbriche, nella periferia, nella provincia, ed infine ne diviene la più convinta espressione, sia quando si discutono le strategie del partito nei congressi nazionali, sia quando è invitato ad assumersi la responsabilità di segretario provinciale.

La linea di tensione che ha attraversato questo gruppo politico e che ha influito sulla sua formazione e sulle sue scelte, risente all'inizio dell' avventura aclista di Labor - che promuove il Movimento Politico dei Lavoratori - e poi del dibattito sul futuro del cattolicesimo democratico, che si accende a cavallo del referendum del '74. Da quegli anni si rafforza il rapporto con la «Lega Democratica» che ha nel professor Scoppola il suo indiscusso punto di riferimento culturale e politico. La concretezza e la capacità organizzativa del gruppo bresciano lo fa diventare, per qualche tempo, il punto di appoggio di «Appunti», rivista della Lega stessa.

La linea politica che permette a Gervasio Pagani di esprimersi in
modo pieno, è sicuramente quella che è definita: «zaccagniniana». Anche a Brescia la nascita dell' «Area Zac» favorisce la convergenza delle diverse correnti democristiane che condividono la «strategia dell' attenzione» di Moro e che sostengono con decisione la politica di solidarietà nazionale. A quella linea è raccordata la speranza di un profondo e diffuso rinnovamento del partito.

Questa svolta, come è noto, dura per quattro anni e deve affrontare prove durissime; quando il terrorismo colpisce, in Moro, la espressione più alta di questa politica, si mette in moto un percorso di restaurazione che - attraverso un ciclo di grande trasformismo porta alla fine della prima repubblica. Ma a questo punto siamo ad un periodo di declino che Gervasio non ha vissuto.

Chi ha conosciuto l'intransigenza di Gervasio Pagani, comprende le ragioni che lo hanno spinto ad inasprire - dopo la fine della solidarietà nazionale - la sua posizione, senza peraltro piegarlo alla tentazione di abbandonare la battaglia politica.

Mi è capitato di incontrarlo molte volte, nel tempo che va dagli anni della «strategia della tensione» (che ha insanguinato anche Brescia) e del referendum sul divorzio (che ha incrinato l'unità politica dei cattolici e la centralità della DC), alla campagna elettorale dell'87 che lo ha impegnato in prima persona in una difficile competizione; ho molte volte discusso animatamente - come con Gervasio accadeva naturalmente - del significato del nostro impegno politico e delle prospettive del cattolicesimo democratico. Fu in quel periodo, mentre molti si allontanavano dalla politica, che Gervasio assunse impegni più gravosi, con spirito critico, diventando punto di riferimento della sua generazione.

Abbiamo fatto, quasi sempre, le stesse scelte politiche. Eppure avvertivo il lui una certa insofferenza, la convinzione che si poteva essere più chiari e fare di più, che la gente non si sarebbe fatta spaventare dalla nostra intransigenza ma, all'opposto, avrebbe condiviso con più convinzione le nostre proposte. C'erano di mezzo vent'anni, e la sua capacità di suscitare l'entusiasmo, anche quando doveva reggere il peso della solitudine. 

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