INTERVENTO AL XVI CONGRESSO NAZIONALE DC 24/28 FEBBRAIO 1984
È giustamente diffusa in molti la convinzione che attraverso questo congresso nazionale passi il destino e il ruolo futuro della Democrazia Cristiana. Quando un partito politico è reduce da una clamorosa sconfitta elettorale, causata non da un cambiamento incompreso di linea politica, ma da una sfiducia, da una insofferenza diffusa di parti consistenti del suo elettorato tradizionale, ha il dovere di dimettere comportamenti e mentalità che ne hanno offuscato la credibilità e porre mano a decisioni straordinarie.
Non è in discussione il segretario, perché merita una prova d'appello, avendo ereditato più che creato una situazione di crisi, ma il gruppo dirigente sì, una struttura e un apparato che tendono a riprodurre se stessi e si dimostrano incredibilmente dispendiosi a fronte di una pressoché totale inadeguatezza a interpretare i fermenti della società, a predisporre proposte, a preparare nuovi quadri.
La politica oggi è chiamata a governare e a orientare i processi di trasformazione in atto, ma non ne è capace perché non dispone di mezzi idonei. La DC, nella maggior parte delle sue strutture centrali e periferiche, è organizzata per affrontare le questioni del tesseramento e delle periodiche verifiche congressuali: per il resto, tutto, finanche il lavoro legislativo, è affidato alla buona volontà e alla capacità dei singoli. Un po' poco in una società dove i grandi progressi sono frutto sempre di un lavoro collegiale e organizzato. Anche il ceto politico ai vari livelli, essendo venuti meno i filtri tradizionali rappresentati un tempo dal mondo cattolico, spesso è improvvisato, privo di adeguata competenza, scarsamente motivato culturalmente e idealmente, soprattutto se cooptato in una logica dove la politica è associata alla professione svolta quando non agli affari.
Eppure un grande partito popolare di ispirazione cristiana dovrebbe sapere che gran parte del suo credito e della sua rappresentatività si gioca sulla classe dirigente che a tutti i livelli riesce a dispiegare. Da tempo poi per un certo inaridimento del dibattito politico al nostro interno e per una fossilizzazione delle gerarchie correntizie non si fa più nemmeno una intelligente cooptazione.
Non sto muovendo, come si è soliti fare, la solita rampogna contro i vertici. Perché i mali e i limiti dei vertici sono presenti anche nella periferia. Anzi, a ben vedere, proprio perché non si è adeguatamente sostenuto il ricco patrimonio di cultura e di tradizioni autonomistiche, la DC rischia di perdere il connotato più prestigioso del suo popolarismo, di disporre cioè di tanta classe dirigente espressione genuina della classi popolari. Molte province hanno inviato delegati ai congressi regionali senza nemmeno celebrare le assemblee sezionali, il partito chiama a pronunciarsi sulle linee e sulla classe dirigente iscritti che in buona parte sono politicamente morti e comunque, per le modalità con cui sono stati raccolti, poco rappresentativi dell' elettorato.
Il sistema elettorale interno premia la logica della polverizzazione corporativa delle liste, cosi che il controllo di pacchetti di tessere rappresenta per molti un investimento patrimoniale.
L'Assemblea nazionale aveva giustamente indicato alcune regole che modificassero i perversi meccanismi attuali: ma ci si è ben guardati dall'attuarle e dal viverle secondo lo spirito con il quale erano state proposte. Comunque è ben strano che poniamo l'esigenza della modifica delle regole del gioco a livello istituzionale, se anche il nostro partito e tutti gli altri partiti non incominciano a vivere al loro interno autenticamente la democrazia, a consentire che si individuino responsabilità e si riconosca adeguata autorità a chi è chiamato ad assumerle. Anche il troppo scarso avvicendamento e ricambio della classe dirigente accresce il distacco tra la politica, tra il partito e l'opinione pubblica, perché, se storicamente nel passato i partiti esprimevano un grado di consapevolezza più alto rispetto alla società, oggi è vero spesso il contrario. L'introduzione di regole che limitino il numero delle legislature a tutti i livelli e la durata degli incarichi contribuirebbe a rinnovare la classe politica e forse romperebbe i legami in molti casi saldi tra la politica e gli affari.
La questione morale è questione centrale per un partito di ispirazione cristiana. Non esserci preoccupati nel passato di pretendere pulizia nel comportamento di uomini della Democrazia Cristiana e non avere reagito con un'offensiva culturale e con atteggiamenti irreprensibili ai fenomeni di degenerazione del costume, ha allentato la credibilità del nostro partito presso l'opinione pubblica italiana, soprattutto presso quella che per convinzioni etiche e religiose pretende che la politica sia servizio e giustamente non la accetta quando è mestiere spregiudicato, fonte di affari.
De Mita nella prima fase della sua gestione si è impegnato con vigore su questo tema, introducendo forme di censura e provvedimenti disciplinari contro iscritti che si siano macchiati di responsabilità penali nell'esercizio del potere. Ma mi sia consentito di sottolineare qui che anche nella Democrazia Cristiana, come in altre forze politiche, la questione della loggia massonica P2 non ha trovato quella risposta inflessibile, vigorosa che la parte più sana del paese e del nostro elettorato si sarebbe aspettato.
Anche nella relazione del segretario è pressoché ignorato questo, che resta uno degli episodi più oscuri, più infamanti e volgari, uno degli attentati più pericolosi alla democrazia italiana. Eppure la questione morale parte da qui. Com'è possibile liberare tutte le ricche risorse, la creatività del nostro sistema democratico, se non si fa chiarezza su quei poteri occulti, corruttori, nemici della democrazia, che, sfuggendo ad ogni controllo, si sono infiltrati all'interno di partiti, redazioni di giornali, banche e apparato statuale? Può la DC sottrarsi all'impegno di sconfiggere con decisione, di estirpare fenomeni come la mafia e la camorra, senza perdere la sua identità di partito cristiano?
Non si può non convenire con l'esigenza di ridare efficienza e competitività al sistema economico e quindi di diminuire il tasso di inflazione attuale. Ma non partiamo da zero. Non abbiamo una crescita indefinita. Se di svolta epocale si tratta, qualunque politica di crescita deve fondarsi su un largo consenso sociale, su valori condivisi. La proposta della DC allora deve qualificarsi per un avvertito solidarismo, per un forte afflato verso le fasce meno protette e più deboli della società. Il discorso dei sacrifici è credibile solo se sono ripartiti equamente, se a chi ha di più e ha accumulato molto si chiede di contribuire adeguatamente. Dobbiamo porre in primo piano il problema dell'occupazione, specialmente giovanile, il diritto al lavoro è un diritto umano oltre che costituzionale, difendere il salario familiare per i nuclei a un solo reddito, favorire una nuova imprenditorialità fra i giovani e valorizzare le energie del volontariato sociale, della cooperazione. Pure la questione fiscale per le vaste aree di evasione ancora esistenti sarà banco di prova della credibilità della manovra, come la rimozione degli sprechi nell'ambito della spesa pubblica, che discriminano le aree più povere a vantaggio di quelle più ricche.
C'è parecchio disagio oggi fra la gente, tra chi lavora onestamente, compie il proprio dovere e cresce la famiglia con amore e sacrificio. Fra i lavoratori, fra coloro che non hanno lavoro, diffusa è la sfiducia verso la politica, verso lo stesso movimento sindacale. Le vicende dei giorni scorsi, che hanno visto rompere l'unità d'azione del sindacato, vengono da lontano e ci devono preoccupare per quello che possono provocare.
Questo Paese non supererà le sue difficoltà senza coesione sociale, Aldo Moro ce lo ha ampiamente insegnato. A me pare avventurista l'ipotesi di poter governare la crisi in un clima di lacerazione sociale. Ed è altrettanto astratto pensare di proseguire con il PCI il discorso sulla riforma istituzionale, se il pentapartito non recupera la capacità di dialogare con i comunisti. Zaccagnini ha invitato a sperimentare strade nuove per rilanciare il dialogo con l'opposizione, per realizzare una concordia sempre più vasta sulle grandi questioni di interesse nazionale. Io concordo con questo auspicio, pur se oggi non possiamo non sottolineare l'immobilismo del PCI, la sua involuzione rispetto ad alcuni passi significativi compiuti nel passato. Il problema della pace, della riforma istituzionale e della ricostruzione di una unità d'azione del movimento sindacale possono essere un importante terreno di verifica. E credo pure che nell' ambito delle autonomie locali, per sconfiggere il trasformismo e l'opportunismo dei partiti laici e rilanciare il ruolo degli enti locali, occorra rilanciare il confronto con tutte le forze politiche, compreso il PCI, sui programmi, disponibili a tradurre in solidarietà operativa una omogeneità di valutazioni sulle cose da fare.
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