Carlo Borgomeo

Quaderni di Humanitas – Brescia 1997
CARLO BORGOMEO
GERVASIO PAGANI E IL MONDO SINDACALE 


Mi è stato chiesto di ricordare Gervasio, a dieci anni dalla sua tragica scomparsa, riflettendo sui suoi rapporti con la esperienza del sindacato. Lo faccio volentieri anche se temo di dare della questione una lettura parziale, perché riferita ad una fase limitata della vicenda politica di Gervasio, il periodo dal '73 al '77. 
Una fase limitata, ed ormai lontana; il che rende possibili giudizi meno condizionati dalle emozioni, dalle relazioni personali e, in qualche caso, da forme di opportunismo.

In quel periodo una delle più straordinarie esperienze sindacali «bianche», e cioè la FIM-CISL di Brescia, conobbe una fase di travaglio e di conflitto che Gervasio, dall'esterno, visse con particolare disappunto ed amarezza.

Il gruppo della FIM, che aveva all'OM una presenza storicamente assai forte e che, per meriti acquisiti sul campo, esercitava una sostanziale egemonia in termini di cultura e di prassi sindacale, venne fortemente ridimensionato, fino ad essere escluso dagli organismi dirigenti sindacali.

Inutile analizzare le cause prossime delle tensioni e delle incomprensioni: in sede di ricostruzione storica (sono passati vent'anni!) si può affermare che si concretizzò un paradosso: in nome dell'autonomia del sindacato si rese marginale una esperienza radicata e certamente adulta nei confronti della politica. A ben guardare tutta la operazione si consumò nel segno della normalizzazione, rispetto agli orientamenti della FIM nazionale, gestita con scarso riguardo al principio dell'autonomia, che in quella occasione apparve come necessaria solo nei confronti della Democrazia Cristiana.

Quella vicenda allontanò Gervasio dal sindacato e, siccome in qualche caso alcuni amici avevano pensato che sarebbe stato utile un suo diretto impegno nella CISL, visse quella vicenda come la conferma di un allontanamento definitivo di quel mondo dal suo raggio di impegno.

Un impegno che, come tutti ricordano, era senza riserve e senza furbizie: una generosità travolgente. Nel suo modo di parlare, di lavorare, di scrivere, di intervenire in pubblico, si coglieva una incontenibile, perentoria ansia di impegno verso lo sviluppo e la giustizia sociale.

Del sindacato Gervasio apprezzava e sottolineava soprattutto le enormi potenzialità di strumento di partecipazione e di democrazia diretta, uno strumento capace, più delle forze politiche, di dare voce alla gente, alle fasce marginali e di «includerle» come diremmo oggi, nel sistema delle relazioni sociali.

Questa potenzialità, per Gervasio, non doveva essere fine a se stessa, ma è una enorme opportunità, perché si sviluppasse nel Paese una maggiore capacità di partecipazione e di dialogo tra le diverse culture politiche, in un disegno di crescita complessiva del tessuto democratico.

Negli anni della «terza fase» Gervasio, come egli stesso ha lucidamente scritto, guardava al sindacato come a una risorsa straordinaria per affermare un modello di sviluppo democratico pluralista, in cui non vi fossero tentativi egemonici. E in questo quadro di crescita complessiva, di arricchimento reciproco, non certo di cancellazione di ideologie e valori, era naturalmente legittimo non rinunciare ma anzi implementare la propria identità socio-politica.

In questa sostanziale gerarchia, che vedeva la politica al primo posto, il sindacato aveva un ruolo importante e, soprattutto, non subalterno.

Non assorbiva tutto il fare politica, ma ne diventava una condizione non marginale.

Dopo vent'anni quel disegno appare sconfitto: la democrazia dell'alternanza, non costruita attraverso un processo di incontro e di reciproco arricchimento delle grandi forze politiche, stenta a decollare, in un quadro di preoccupante confusione e di indiscriminato attacco alla politica.

Dire che uomini come Gervasio avevano visto giusto, non è una magra consolazione. Serve a formulare un giudizio che va al di là del ricordo affettuoso e, in alcuni momenti, struggente. 

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