Don Mario Pasini

Quaderni di Humanitas – Brescia 1997

di DON MARIO PASINI
UN CRISTIANO AUTENTICO 



Gervasio Pagani era senza dubbio un cristiano autentico, per aperta professione di fede e per coerente comportamento nella vita. Ma non era assolutamente un bigotto, né un clericale, né un esibizionista della propria fede. Autentico figlio del popolo, anche nella professione della sua fede, fu coerente con tutto lo stile della sua vita: uomo d'azione, la sua fede religiosa la esprimeva più che nelle pratiche devozionali, nell'azione concreta della sua attività politica, sempre nel segno della giustizia e soprattutto della solidarietà concreta verso i più deboli. Spesso saltò formalismi e convenienze fino ad apparire qualche volta come un duro, mentre era solo un uomo che voleva adeguare il più possibile il suo agire concreto agli ideali professati.  
Direi che Gervasio era un' anima «naturalmente cristiana»: per la sua eccezionale sensibilità ai valori dello spirito per i suoi gusti personali, per i valori che lo facevano felice, soprattutto per la sua autentica passione a difesa della giustizia e ai servizi della solidarietà verso i più deboli.

Laureato in filosofia e insegnante di filosofia nelle scuole superiori, non ostentò mai la sua cultura in funzione religiosa. Non ebbe mai pose di intellettuale. La sua religiosità sembrava scaturire direttamente dalla sua sensibilità umana, dalla formazione popolare respirata fin da bambino nella sua parrocchia.

I suoi gusti non erano quelli dell'intellettuale raffinato, ma dell'uomo semplice che nella bellezza della natura trovava le sue gioie più autentiche. Egli godeva del sorgere del sole, restava in estasi davanti alla bellezza delle Dolomiti, era felice di passeggiare nel silenzio dei boschi, di ascoltare in silenzio le onde del mare, di passeggiare meditando sui sentieri del semplice Monte Orfano. Il suo amore nella natura lo portava immediatamente all'adorazione di Dio. Ma anche in questo suo rapporto personale religioso, come in tutte le sue cose, era sobrio e concreto.

Direi che l'espressione più tangibile della sua religiosità fu la passione per la giustizia e l'amore concreto verso i più deboli. Passione nata dall'esperienza diretta della povertà (rimasto orfano con 2 fratelli, si mantiene da solo agli studi) e alimentata dall'educazione ricevuta in parrocchia, da quell' autentico educatore che fu il parroco della sua giovinezza: don Remo Tonoli. Don Remo, pur nel temperamento equilibrato anche dalla missione di pastore di un intero popolo, sentiva profondamente il problema della giustizia anche se non si lasciava trascinare a forme di radicalismo e di demagogia.

Alla fine Gervasio superò il maestro perché i suoi studi e i nuovi maestri incontrati resero più radicale la sua passione per la giustizia. I maestri che nutrirono lo spirito cristiano di Gervasio furono Maritain e Mounier, Mazzolari e don Milani, Lazzati e Dossetti. Ma soprattutto P. Turoldo (vicino fisicamente a Coccaglio nel suo monastero di S. Egidio) divenne il suo maestro principale e la sua guida. Quante volte Gervasio «fuggiva» al monastero di Fontanella Sotto il Monte, per ricaricarsi l'animo nelle parole profetiche di P. Turoldo o per partecipare profondamente alla liturgia dei monaci che interpretavano i misteri più alti del cristianesimo.

Gli incontri con P. Turoldo portarono Gervasio a contatto con le pagine più profonde delle Scritture: i Salmi, il Libro di Giobbe, il Nuovo Testamento.

Queste erano le autentiche fonti della religiosità profonda di Gervasio, che non gli impediva di partecipare da buon parrocchiano alle forme di devozione della sua parrocchia.

Da queste «radici» religiose discendeva coerente la sua azione politica, che egli concepiva come una autentica missione per combattere le infinite ingiustizie di tante assurde leggi e istituzioni di uno Stato ispirato ai tradizionali criteri delliberalismo e non molto sensibile alle sacrosante esigenze delle classi più deboli.

Gervasio era un autentico democratico e sapeva che solo attraverso le procedure democratiche si sarebbe potuta compiere quella autentica rivoluzione sociale che avrebbe abolito privilegi e ingiustizie, aprendo molte porte ancora chiuse alle classi più deboli.

Il suo radicalismo sociale lo portò giovanissimo con i sindacalisti bresciani davanti ai cancelli della FIAT Mirafiori, per le rivendicazioni operaie. Ma fu sempre contrario ad ogni forma di violenza, anche se nei suoi discorsi politici non amava le mezze misure e i compromessi a cui si adeguavano alcuni suoi colleghi di partito, verso i quali non risparmiava il suo duro giudizio.

Ma un po' per il temperamento (uomo concreto d'azione), un po' per quel radicalismo che aveva respirato dai suoi maestri di pensiero, era un politico impaziente, stanco di aspettare, sfiduciato nella gradualità dietro la quale si sono rimandate per decenni riforme urgenti. Prese posizioni decise, senza mezzi termini. Posizioni che offesero i suoi colleghi più moderati e temporeggiatori. Per questo fu spesso giudicato «un duro», se non addirittura un superbo.

Chi ha conosciuto Gervasio nella sua autentica passione cristiana, nei suoi progetti, nei suoi ideali, nei suoi tormenti, può garantire che questa sua «durezza» (solo verbale evidentemente) non era che la conseguenza logica della sua passione politica per la giustizia. Non era che la forma più concreta della sua fede religiosa che concepiva la politica come autentico servizio del bene comune e soprattutto verso i più deboli. 


1988 - Don Mario Pasini - La passione politica di Gervasio
Uno degli aspetti più negativi della vita italiana e il distacco sempre più profondo tra la politica e la vita civile, tra i politici e la gente comune. E di conseguenza la disistima sempre più dilagante verso la classe politica, giudicata, sommariamente, incapace, disonesta e corrotta.

Situazione che si è accentuata in questi ultimi anni a causa dei ripetuti scandali, ma che, per la verità, non è una novità come dimostra il vecchissimo detto: piove, governo ladro!

Non si può certo negare che la classe politica - governo, parlamentari, amministratori, grandi burocrati dello Stato - abbia nel suo seno - come tutte Ie altre categorie sociali - disonesti, corrotti e incapaci, che vanno inesorabilmente condannati e puniti. Non solo per il discredito che gettano sulle istituzioni, ma anche per il fango che gettano sui loro colleghi onesti e capaci, che grazie a Dio sono ancora la maggioranza.

Nella inflessibile, doverosa e rigorosa denuncia dei corrotti e degli incapaci, non bisogna però lasciarsi prendere la mano da quel qualunquismo, da quella pregiudiziale sfiducia verso la politica e lo Stato (sentito come nemico per motivi storici in parte giustificati) che alberga nell'animo di troppi italiani. A parte la constatazione che la classe politica rappresenta adeguatamente il Iivello morale, culturale e politico del paese (ogni popolo ha il governo che si merita), dobbiamo, come cittadini, a nostra volta essere onesti nel riconoscere, oltre ai lati negativi, anche quelli positivi.

Sarebbe troppo comodo (e ingiusto) attribuire tutti i mali della nostra vita pubblica ai politici, riservando a noi tutto il bene e i meriti per l' autentico miracolo con il quale l'Italia in trent'anni ha reaIizzato, senza bagni di sangue, la più grande rivoluzione sociale e culturale della sua storia millenaria.

Ma discendiamo da queste affermazioni generali, a più concrete considerazioni: tutti conosciamo a livello nazionale e soprattutto locale, politici e amministratori onesti, capaci, seriamente e generosamente impegnati nel servizio del nostro paese e nell'aiuto alIa crescita sociale, economica e politica della nostra comunità. Governare e amministrare la cosa pubbIica e oggi, ad ogni Iivello, uno dei compiti più difficili e onerosi. Accontentare tutte Ie esigenze, spesso contrastanti, delle varie categorie e una delle imprese più ardue.

Come ricompensa questo servIzIo raccoglie più critiche, scontento, l'ingratitudine e denunce che riconoscimenti e gratitudine. C'e quasi da meravigliarsi che ci siano persone disposte a dedicarsi alla politica. Eppure nonostante tutto questo, ci sono ancora cittadini che vi si dedicano con impegno. Si dice che lo fanno per ambizione, per ricerca di carriera e di successo, per denaro. E in alcuni certamente sono questi i motivi che li spingono ad affrontare rischi, critiche e responsabilità.
Ma come in tutte Ie categorie ci sono, anche in politica, uomini che non sono spinti solo dal desiderio di affermarsi o di arricchire, ma della «passione» per I' attività pubblica.
Esiste una passione per la politica come esiste per l' economia, la cultura, I' arte, la religione. Ci sono i cosiddetti «animali politici» che hanno nel sangue l'interesse per la vita sociale e politica. E tra questi «animali» politici ci sono ancora dei cristiani che considerano la politica non solo come un doveroso servizio al bene comune, ma - secondo l'insegnamento magistrale del grande Paolo VI - come la forma più alta della carità cristiana cioè dell' amore ai fratelli.

Gervasio Pagani era uno di questi «politici» per passione e per vocazione, di quelli che concepiscono la politica nel senso più nobile: come servizio della comunità, come contributo alIa crescita economica - sociale - culturale del popolo, soprattutto delle categorie pùl deboli.

Era un politico nato: ma non quello che si chiama «un politico puro» (intellettuale, maestro di principi nobilissimi, ma spesso astratto). Era un uomo concreto, un politico d'azione che si era guadagnato i gradi di dirigente politico attraverso l' esperienza amministrativa (Coccaglio conosce Ie realizzazioni sociali realizzate dal Comune, per es. per gli anziani, per opera di Gervasio e dei suoi amici). Certo portava nella politica tutta la carica della sua personalità, la sua legittima ambizione di uomo colto e intelligente (la giusta ambizione non è un difetto, anche i Santi erano mossi dalI' ambizione di servire Dio e i fratelli), tutto l'entusiasmo e la passione del suo temperamento, tutta l' energia del suo carattere forte (aveva un «brutto» carattere? Qualcuno ha detto che solo chi non ha carattere non ha un brutto carattere), tutta l'intransigenza e il rigore morale che avevano quasi accenti di calvinismo.

Era un uomo tutto d'un pezzo, un radicale: nemico degli orpelli e delle meline della politica di basso livello; non tollerava i compromessi e Ie mezze misure, non amava Ie sfumature diplomatiche, aborriva la mediocrità e la meschinità. Nelle battaglie, in cui si gettava a corpo perduto, preferiva la spada tagliente al fioretto. Nel logoro linguaggio politico si collocava come uomo di sinistra.
Ma non di una sinistra «da salotto», tanto di moda tra gli intellettuali borghesi anche di matrice cattolica. Era un «popolare» perché veniva dall'umile popolo di cui fin da bambino aveva condiviso la povertà e Ie umiliazioni. Lo studio attraverso il quale era diventato un uomo di cultura (insegnava filosofia) non lo aveva distaccato dalla povera gente. Studente universitario si era schierato coraggiosamente accanto agli operai (era corso a Torino a fianco degli attivisti che sfidando la polizia «picchettavano» la FIAT negli anni dello strapotere padronale), aveva organizzato il partito battendo sera dopo sera Ie sezioni dei paesi, preoccupato come pochi di creare classe dirigente, si era dedicato con passione alIa formazione politica e sociaIe dei giovani, si era misurato sui problemi concreti della gente attraverso I' esperienza amministrativa del Comune.

Non era un uomo accomodante: anzi spesso era scomodo. A qualcuno sembra talora superbo, arrogante e troppo sicuro di se stesso. Ma chi lo conosceva ne apprezzava la rettitudine morale e la dedizione ai suoi ideali. Dietro la scorza rude, talora aspra, nascondeva una ricchezza umana, una squisita sensibilita (era un papa tenerissimo) e un cuore grande dove vibrava il calore dell' amicizia più affettuosa che trasformava i suoi compagni di idee in amici fraterni. Nobilitava tutte queste qualità umane, che erano il fascino della sua personalità, con una solida fede senza collo torto e senza ostentazioni devozionali: aveva una profonda ricchezza spirituale che gli veniva dalla formazione cristiana ricevuta da Don Remo.
Non era un calcolatore ne un furbo: era un idealista e la sua testimonianza dimostra a tutti gli scettici e ai qualunquisti che ci sono ancora uomini che credono in qualcosa di nobile e sanno dedicare la propria vita a ideali che non sono solo il denaro, il successo e il potere personale.
Quando era convinto di una battaglia la combatteva coraggiosamente, incurante delle avversità, delle opposizioni e delle inimicizie che gliene potevano derivare, nel suo stesso partito...

Era troppo intelligente e abbastanza navigato per non sapere che usando più diplomazia, smussando qualche angolosità, accettando qualche compromesso, avrebbe potuto avere più successo e raccogliere maggiori applausi e consensi. La sua sconfitta (per un pugno di voti) nelle elezioni al Parlamento è dovuta a questa sua mancanza di calcolo e alIa sua scrupolosa onestà. Se i bresciani gli avessero dato quel centinaio di voti in più che si meritava, in quel tragico 13 luglio sarebbe stato a Roma alIa prima seduta del Parlamento e non sarebbe stato stroncato con la giovane moglie e Ie bimbe innocenti sulla tragica strada delle Puglie.

La sua tragica fine e un mistero tremendo che ci pesa amaramente suI cuore senza risposta. Perche Signore? Quattro giovani vite spezzate.
E una grande autentica promessa di coerenza cristiana spenta brutalmente.
Non ci resta che chinare la fronte. Ma la bandiera dei suoi ideali non va abbassata. Da questa incredibile tragedia, da questa atroce sofferenza dobbiamo attingere l'impegno e la forza per continuare la battaglia per gli ideali per i quali Gervasio Pagani ha vissuto e lottato.
E questo il dovere di tutti i suoi amici; il modo migliore per onorare la memoria e rendere feconda nel tempo la sua testimonianza.

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