ASSEMBLEA PROVINCIALE della Democrazia Cristiana
31 - ottobre - 1981
Da segretario del partito Gervasio Pagani ha sempre cercato di intraprendere iniziative capaci di recuperare alla DC le energie sane del mondo cattolico, da quelle intellettuali a quelle associative. Solo in questo modo credeva possibile rinnovare il partito e renderlo capace di far fronte alla crisi del sistema politico. Nell'aula di medicina il 31 ottobre 1981 tenne questa relazione in preparazione dell'assemblea nazionale DC.
La convocazione dell' Assemblea nazionale della DC di novembre, che rappresenta una scelta coraggiosa da parte del partito, avrà comunque conseguenze politiche decisive: o segnerà il passo concreto sulla via di un reale rinnovamento o, se esso non sarà possibile, porterà a un giudizio altrettanto significativo sulla Democrazia Cristiana e sulla sua impossibilità di rinnovarsi. Assume, comunque, i connotati di una scelta straordinaria.
La DC è, infatti, il primo partito che riconosce esplicitamente la propria crisi dentro la crisi del sistema politico e che si appella da una parte alla propria periferia, all'anima del suo essere, dall'altra alle realtà esterne, espressioni dell' ambito culturale ed ecclesiale, di esperienze associative, di istanze provenienti dal mondo del lavoro, delle professioni, deII'imprenditorialità, per riceverne un contributo qualificato al processo di rinnovamento.
La DC intende tornare ad essere partito della società, rappresentativo di forti tensioni morali, di una esigente carica di rinnovamento per riproporsi come forza nazionale e popolare autorevole e degna di concorrere alla fuoriuscita daIIa crisi.
II partito dei cattolici democratici, che è stato forza decisiva per l'affermazione della democrazia e per la trasformazione dell'Italia in senso industriale avanzato con il raggiungi mento di un benessere e di un progresso significativi, di sensibili liveIIi di giustizia sociale e di libertà individuale e collettiva, si piega su se stesso, proteso a capire una realtà nazionale e internazionale inedita e complessa per elaborare, alla luce del proprio patrimonio ideale e culturale, i termini di un nuovo progetto storico-politico. Per questo il problema del rinnovamento della DC e del suo ruolo devono essere considerati nello sfondo di una più ampia riflessione sulla crisi che investe ormai tutti i partiti, la loro funzione e il loro rapporto con la società italiana in una fase nuova e per molti aspetti ancora incerta degli equilibri internazionali.
La crisi della politica è prima di tutto crisi della cultura politica, degli strumenti interpretativi della realtà, oltre che dei gesti e delle scelte. Abbiamo più volte nel passato denunciato un vizio provincialistico del dibattito politico in Italia, una sorta di disattenzione verso ciò che accade oltre i nostri confini.
1. Il quadro internazionale
Eppure i problemi italiani vanno collocati sullo sfondo di una crisi a scala internazionale, la quale colpisce ora duramente anche i paesi industrializzati. Siamo di fronte ad eventi in grado di incidere sulla divisione internazionale del lavoro che sembrava acquisita, sul sistema dei valori e dei principi di organizzazione tipici dei paesi economicamente più progrediti.
Si tratta di eventi capaci altresi di dare nuova esca alla ormai storica competizione fra blocchi che dal 1945 domina la scena internazionale. Il tumultuoso emergere dei paesi del Terzo Mondo e il nuovo ruolo mondiale della potenza cinese incidono fortemente sull'equilibrio complessivo formatosi all'indomani della seconda guerra mondiale. Un vecchio equilibrio che pure ha garantito all'umanità nel suo insieme trentacinque anni di pace, relativa ma sostanziale, appare, per molti versi, incrinato, mentre si avvertono palesi tentazioni di modificarlo, da parte dell'uno Q dell'altro a proprio esclusivo vantaggio. Gli ultimi anni del decennio trascorso hanno visto una preoccupante ripresa di guerre locali, sono tornati a manifestarsi casi di truppe mercenarie che hanno occupato e tutt' ora presidiano paesi remoti; l'invasione russa in Afghanistan è il segno drammatico di un' escalation che ripropone al mondo l'incubo della guerra totale.
E ora focolai di tensioni di possibile portata mondiale si moltiplicano con il risultato di acuire i contrasti e di far paventare una guerra nucleare. Di fronte al declino della lotta di classe, emergono coscienze di appartenenze comuni di tipo nazionale attorno ad interessi pronti a entrare in conflitto fra di loro. I conflitti di classe tendono ad essere internazionalizzati, a consumarsi fra le nazioni. Tutto questo in una crisi delle ideologie universalistiche sulle quali era stato plasmato l'ordine politico all'indomani della seconda guerra mondiale. Non è in crisi soltanto la concezione marxista, ma si registrano difficoltà degli stessi partiti democratici cristiani e socialdemocratici.
2. I grandi problemi del futuro
La crisi nella disponibilità di energia e il continuo aumento del prezzo del petrolio sono divenuti uno dei più pericolosi fattori di destabilizzazione degli equilibri internazionali. La ingente redistribuzione internazionale della ricchezza, provocata dal rincaro del petrolio, non ha certo premiato quei paesi che più avevano pagato il prezzo dello sviluppo economico mondiale, ma quelli che casualmente si sono trovati in una momentanea situazione di rendita.
L'inflazione non ha soltanto accelerato il suo passo ma ora è divenuta una vera e propria epidemia a carattere mondiale: pochi riescono a evitare il contagio. Al di là di questi fatti strutturali cosi corposamente avvertibili, c'è qualcosa di più sottile che endemicamente insidia l'egemonia economica e culturale dell'Occidente: il sistema produttivo continua a divorare tradizioni, energie, valori morali e sistemi normativi che non è più in grado di riprodurre.
La dimensione dello Stato del benessere che provvede in modo paterno, previdente e mite ai bisogni dei cittadini, la conquista più avanzata delle politiche socialdemocratiche e cristiano sociali, in Europa Occidentale, subisce oggi gli attacchi concentrici della crisi economica, della concorrenza mercantile soprattutto delle nazioni dell'Estremo Oriente e della rivolta culturale di nuove generazioni di utenti che si battono contro il burocratismo statale e per una nuova qualità della vita.
Pertanto occorre avviare una revisione del modello dello Stato del benessere, che, fatta salva la sostanza delle conquiste umane e sociali ottenute contro la miseria e l'indigenza, si preoccupi anche dell'obiettivo prioritario di non far pagare le conseguenze della regressione in atto agli anziani non del tutto autosufficienti, agli handicappati, ai malati, ai poveri.
Perché questo è il pericolo, tanto maggiore nelle economie più povere dello stesso mondo occidentale.
E poi occorrerà fare i conti con le esigenze della ristrutturazione produttiva, già in atto ovunque, in una fase di stagnazione e di inflazione, evitando l'emarginazione dal mercato del lavoro di milioni di persone, soprattutto giovani, e salvaguardando però, nel frattempo, l'efficienza e la concorrenzialità dei nostri prodotti sul mercato internazionale.
Per evitare il ritorno alla semplice logica dei rapporti di forza sul mercato del lavoro, che provocherebbe lacerazioni insopportabili ed esiziali per il sistema democratico, va affrontato il problema della distribuzione della ricchezza in forme compatibili con la democrazia politica e con l'esigenza della giustizia sociale.
Tutto questo dentro una rivoluzione delle economie industrializzate, nella quale c'è anche l'Italia, che nel giro di un ventennio vedrà i due terzi dei lavoratori addetti al settore terziario.
E l'era delle produzioni automatizzate, dell'informatica, della telematica porterà con sé anche una trasformazione profonda della stratificazione sociale e una rivoluzione antropologica, culturale, di valori.
Per questo, a fianco dei problemi quantitativi dell'economia, si porranno quelli della nuova qualità della vita, della dignità del lavoro, del ruolo della persona umana, del nuovo rapporto tra scienza e vita, fra tecnica e morale, fra le ragioni dell'economia e quelle dell'uomo come entità spirituale.
Eppure ci tocca di constatare che il doppio passaggio dall' espansione alla crisi economica e dalla distensione al riacutizzarsi della tensione internazionale non ha realmente modificato i comportamenti sociali. Nonostante tutto pare che i cittadini di questa Europa balbettante continuino a farsi gli affari propri come se niente fosse.
Eppure un gran numero di segni - il ritorno della violenza, le devastazioni della droga, la crisi dell'insegnamento, le strozzature sociali, lo smarrimento culturale - sembrano indicare che una vera e propria crisi di civiltà sta toccando le nazioni più ricche, mentre il Terzo Mondo, dove l'Occidente si approvvigiona di materie prime, è in preda a convulsioni rivoluzionarie o all'ordine sterile delle dittature.
La vita pubblica, organizzata in funzione di concetti che non sembrano più adeguati, si fonda su strutture che rispondono solo in minima parte al loro obiettivo teorico e assorbe risorse immense senza più produrre i frutti promessi. I comportamenti acquisiti tendono ormai a riflettere una scollatura dalla realtà, la quale pare ispirare poca speranza e riuscire assai poco comprensibile. Ma, quando una società non è più in grado di percepire il suo divenire collettivo, gli individui che la compongono si ripiegano su se stessi in un frenetico ciascun-per-sé. Allora la società si atomizza e, diventata incapace di padroneggiare i propri destini, può scadere in un dubbio e in una rassegnazione che si colorano di inquietanti significati politici. Lo scetticismo è una virtù quando è al servizio di uno spirito critico. Diventa invece un veleno mortale quando sbocca nella rassegnazione.
Di fronte al rischio che trionfi la passività e il fatalismo bisogna ridare fiato all'utopia, ridare speranza alla politica in attesa di una politica della speranza; fare appello a grandi energie morali e intellettuali per colmare un ritardo sempre maggiore sulle trasformazioni di un mondo che la ricerca culturale non riesce più a cogliere nella sua complessità.
Si apre allora un grande spazio per una mobilitazione dei cristiani, e un esempio di coraggio intellettuale e di fede nell'uomo ci è venuto anche dall'ultima enciclica di Giovanni Paolo II, Laborem exercens. Si tratta di gettare i valori fondanti e condizionanti il nuovo processo accumulativo e redistributivo dello sviluppo umano nel mondo, cercare di imprimere il senso del messaggio cristiano nella nuova organizzazione di dominio della natura, nella fondazione delle nuove regole del lavoro umano e dei diritti al primato della soggettività del lavoro sul capitale, tra il Nord e il Sud del Mondo, per la pace nella giustizia. Di qui può scaturire una politica. Eppure, proprio di fronte a questi problemi straordinari, avvertiamo come la politica spesso, e anche nel nostro partito, si presenti povera di prospettive internazionali, provinciale, ridotta a giochi interni alla rappresentanza partitico-parlamentare, quasi priva di reali interessi conoscitivi e operativi per quanto concerne i temi e i drammi della divisione del lavoro, della occupazione e disoccupazione, della crisi produttiva, cui si accompagna la crisi sindacale.
Comunque mai come in questo momento le grandi questioni internazionali coinvolgono le piccole questioni locali, fino a quelle della vita quotidiana. Si pone in sostanza l'esigenza di tornare a «pensare in grande», dentro la crisi della politica, e anche delle democrazie cristiane, delle concezioni della democrazia ancorate a una ispirazione etica.
E porrei qui in modo perentorio il dovere di ricercare la pace che è il primo comandamento morale di ogni coerente politica democratica e, a maggior ragione, del cristiano politicamente impegnato.
La Democrazia Cristiana ha alle spalle una tradizione pacifista che, senza nulla concedere a posizioni ingenue, si è tradotta nella costante di momenti di dialogo e di collaborazione fra le diverse aree geopolitiche del mondo. Questa opera paziente, fiduciosa nel dialogo fra le culture, fondata sul rispetto della dignità di ogni popolo, su un' azione di sensibilizzazione delle coscienze, deve continuare, nella migliore tradizione di De Gasperi, di La Pira e Moro, per costruire una pace fondata sulla giustizia anche distributiva fra paesi ricchi e paesi poveri e sul disarmo progressivo e controllato da entrambe le parti della polarizzazione mondiale. In questo quadro l'obiettivo politico principale da perseguire dai popoli della Comunità Europea è la costruzione dell'Europa come soggetto politico unitario, protagonista alla pari entro l'alleanza atlantica dotata di una reale politica estera comune nei suoi aspetti istituzionali e nella coscienza dei propri specifici interessi comuni alla pace del mondo. Nel tempo dell'eclissi delle ideologie ottocentesche, la cultura europea può ritrovare forza e slancio universalistico nelle proprie radici umanistiche, nell'indissolubile contatto con la civiltà cristiana: sul terreno della definizione di un progetto per una società nuova nell'era della tecnologia avanzata e dell'automatismo, dall'Europa possono venire indicazioni feconde per il benessere e la pace nel mondo, per la vittoria sulla miseria e sulla ignoranza. E a questo progetto devono lavorare le migliori espressioni della tradizione laica, socialista e cristiana.
3.11 caso italiano
L'Italia è naturalmente partecipe della crisi generale, ma i malanni comuni si presentano da noi aggravati e si intrecciano con i problemi tipici del «caso italiano». L'inflazione è più rapida anche per il meccanismo automatico della scala mobile; la difesa rigida degli occupati scarica le conseguenze del processo inflattivo sulle categorie più deboli e sui giovani in attesa di occupazione. Il Mezzogiorno rimane una «questione» non del tutto risolta a testimonianza di una unità nazionale, economica, sociale e culturale non ancora pienamente realizzata.
Sulla famiglia italiana, già duramente provata dalle trasformazioni sociali del trentennio, si sono scaricate le contraddizioni di uno sviluppo non sempre adeguatamente controllato e gestito.
A fianco di un'Italia ricca, nonostante tutto, di energie morali e di intelligenze, pare imporsi l'Italia delle più esasperate spinte individualistiche.
La ricerca dell'interesse individuale ispira tutte le classi sociali, specie quelle economicamente e socialmente più avvantaggiate, anima in larga misura le stesse rivendicazioni sindacali.
Gli utenti dei servizi pubblici e i malati stessi diventano ostaggi in occasione di scioperi indiscriminati; gli anziani sono dimenticati fino al limite della palese negazione dei più elementari diritti della persona. Gli handicappati e altre fasce deboli della società nel momento della stretta scontano il fatto di non possedere un'arma di ricatto. I gruppi sociali, agguerriti, numerosissimi, protetti da leggi, regolamenti, tradizioni, convenzioni non scritte, sono perennemente impegnati in una specie di guerra che tutto coinvolge, finalizzata ad ottenere vantaggi differenziali o privilegi.
Le rilevanti conquiste sindacali e il diffuso fenomeno dell'accesso alla cultura si sono innestati in Italia in una sorta di compromesso tra rivoluzionarismo ideologico egualitario e meccanismi di invidiosa imitazione dei modelli consumistici nella vita privata.
A questo si aggiunga la dissipazione di immense energie giovanili con la pratica esasperata della protesta e della contestazione, le illusioni di quanti hanno creduto che con una scossa salutare al vecchio ordinamento si sarebbe approdati necessariamente al nuovo. Infine il terrorismo politico che si alimenta a ben individuate tradizioni ideologiche in un singolare intreccio di leninismo e determinismo critico-economico.
Si può ben dire che è emersa, con una secolarizzazione di tipo selvaggio e negativo come quella che l'Italia ha subito, una cultura di massa che congiunge l'individualismo della tradizione borghese, privata però dei valori positivi di senso del rischio e di assunzione di responsabilità che la cultura borghese aveva espresso, con il rivendicazionismo della tradizione operaia, con la prevalenza di uno spirito individualistico radicale e non solidaristico, quale storicamente è sempre stato.
Ma sarebbe ingiusto non riconoscere che vi sono anche segni positivi: nell'area cattolica si sono manifestati ricchi fermenti di religiosità, nuove aggregazioni, molteplicità di generose azioni nel sociale, ripresa culturale in un arricchente pluralismo; nel mondo del lavoro si manifestano segni incoraggianti di coscienza critica, di esigenze nuove di solidarietà e di effettiva democrazia nella vita e nell'organizzazione sindacale; vi è una nuova responsabilità imprenditoriale e manageriale che non fa dell'impresa il modello esclusivo di riferimento per la vita sociale; vi sono nelle università e in genere nella scuola segni nuovi di volontà di ripresa culturale e scientifica e di un serio impegno educativo dopo anni di superficiali ideologismi e di complessiva decadenza; il paese nel suo insieme resiste con forza al ricatto del terrorismo e isola i violenti.
Ma tutte queste energie morali e di rinnovamento trovano sempre meno sicuri punti di riferimento nella società politica.
La crisi della politica
Se i partiti, soprattutto i grandi partiti di massa, hanno il merito storico di aver assicurato alla rinascente democrazia italiana un vasto consenso altrimenti impossibile dopo venti anni di fascismo, il modo con cui si sono sviluppati e radicati nella società e il cristallizzarsi dei loro rapporti in un conflitto di natura ideologica hanno prodotto, a fianco di conquiste importanti, anche effetti fortemente negativi per lo sviluppo del sistema politico italiano.
I fenomeni del clientelismo da una parte, della demagogia dall'altra, della logica corporativa della ricerca del consenso, della erosione delle condizioni di razionalità e di moralità dei comportamenti ne sono gli effetti più evidenti. Naturalmente le contraddizioni sono esplose quando non vi sono più stati margini a una incontrollata e contradditoria espansione delle rivendicazioni settoriali specie tra la fine degli anni Settanta e il decennio successivo.
Oggi la segmentazione degli interessi ha raggiunto tali livelli da rendere impensabile che una qualsiasi forza politica possa esprimere interessi generali. Tutti i partiti sono tagliati e segmentati, come segmentata è la società italiana che essi rappresentano; nessuna classe, nessun ceto sociale è per forza propria portatore di interessi generali. Le contraddizioni ideologiche del passato si intersecano con le contrapposizioni di interessi, contribuendo ulteriormente ad erodere quel tessuto comune di valori, di tradizioni, di sentimenti che è il presupposto di ogni democrazia.
In questo senso è in crisi la funzione stessa dei partiti, la loro credibilità, rischia di aumentare la frattura fra sistema politico, Stato e società italiana. L'atteggiamento dei giovani nei confronti della p0litica, le reazioni di indifferenza della gente comune rispetto a fatti che condizionano pesantemente la vita dei partiti e le loro reazioni reciproche, l'aumento crescente delle astensioni e delle schede bianche nelle ricorrenti consultazioni elettorali, ne costituiscono sintomi preoccupanti. Tutte queste considerazioni erano presenti alla riflessione di Moro che persegui il disegno di una profonda e duratura solidarietà tra le forze politiche per arrestare il processo di disgregazione che rischia ormai di travolgere la democrazia italiana.
Essa è necessaria per superare pregiudiziali ideologiche e il conflitto degli interessi particolaristici troppo a lungo coltivati da tutte le parti; è necessaria per ridare a tutti gli italiani il senso di valori costituzionali comuni che implicano non solo diritti ma duri e esigenti doveri di solidarietà, di servizio, di rinuncia ad interessi particolaristici.
Non a caso Moro aveva perseguito l'unità nazionale come impegno politico comune, nel legittimo pluralismo, ma anche come soprassalto di moralità collettiva e personale più alta, come sforzo verso una società politica non governata dal solo scambio e dalla mediazione fra governo e gruppi di interessi organizzati più forti, ma orientata verso valori universali di giustizia, di efficacia, di mobilitazione e programmazione delle risorse e delle energie verso obiettivi legittimati da intrinseca razionalità e dal consenso popolare.
In Aldo Moro era lucida la consapevolezza che quella che si preannuncia non sarà una nominale «svolta epocale», ma una svolta concreta e severa per milioni di famiglie italiane, specie per quelle già ora in difficoltà, a causa della comparsa di un più aspro sistema di vincoli e di sacrifici; sacrifici e vincoli che, per essere accettati, senza gravi crisi di consenso democratico, richiedono che si instauri una convivenza più giusta, una perequazione visibile, maggiore, nella distribuzione dei tagli al tenore di vita, una responsabilità di governo, di forze imprenditoriali e di sindacati non più fondata sul continuo scarico delle decisioni in termini di inflazione, pur se indicizzata.
Più che i progetti globali che si risolvono spesso nella prassi ormai vecchia delle «riforme gridate» e mai attuate e che conseguono risultati opposti a quelli voluti, servono interventi decisi sui nodi più clamorosi ispirandosi a criteri di razionalità e di moralità. Insomma si tratta di restituire la politica alla sua vera identità e funzione: quella di essere «la cura prudente del bene comune». La strada indicata da Moro non ha trovato alcuno capace di percorrerla: il risultato è che quei nodi irrisolti, quelle tensioni, quei drammi che avevano suggerito di accettare di andare in campo aperto, rimangono ancora sul tappeto, forse incancreniti ed aggravati.
Per questo ripartire da Moro, per andare oltre Moro, sapendo che non vi è alternativa a Moro, è il compito più gravoso ed eccezionale che compete alle forze politiche italiane, e in particolar modo alla Democrazia Cristiana: non si tratta di proporre passaggi tattici che non sono più riesumabili, bensi urge capire perché quella esperienza si è arenata, perché quella indicazione non ha trovato attenti e prudenti continuatori, peraltro in una situazione nazionale ed internazionale che conferma quanto Moro aveva utilizzato come punto di partenza per una ricerca e per una indicazione di governabilità. E la Democrazia Cristiana, che attorno a quel disegno stava recuperando un proprio ruolo guida e una propria identità culturale, è andata poi via via smarrendosi, tanto che ci stiamo attrezzando per definire un ruolo e una strategia per il futuro. Credo che la riforma del modo d'essere dei partiti sia la condizione, perché la solidarietà sia possibile e si possa ricostruire una sostanziale unità attorno alla Costituzione Repubblicana.
5. Il problema della credibilità
Ma, per governare e orientare una società complessa e ricca di contraddizioni come l'attuale, occorre ridare credibilità ai partiti, autorevolezza, trasparenza e competenza alla classe dirigente. La sovrapposizione dei partiti allo Stato, il metodo dell'occupazione del potere ha portato al primato della lottizzazione ai danni delle competenze. Per restituire credibilità ai partiti va restituito spazio alle istituzioni, ridando autonomia agli organi di governo e alle assemblee elettive. Vanno abolite le norme che riservano alle direzioni dei partiti la designazione di ogni tipo di carica e, sottolineando la distinzione dei ruoli, tra partito e istituzioni, fra società e partito, va ridata alla politica la forma concreta di mediazione tra le esigenze della società civile e le strutture dello Stato.
Riconsegnare la politica alla società, il partito alla società, significa che certi elementari valori di onestà, di chiarezza, di coerenza trovino puntuale riflesso anche nella pratica politica.
6. La Democrazia Cristiana e il rinnovamento
La Democrazia Cristiana vive oggi con consapevolezza l'esigenza del rinnovamento e sa di percorrere una tappa decisiva della sua storia. L'entusiasmo, la mobilitazione, l'attesa con cui ci stiamo preparando ad un nuovo corso è segno di vitalità e di freschezza, nonostante tutto. Ma la nostra riflessione non può non collocarsi dentro l'orizzonte che ho delineato, con la serietà, l'intelligenza e la lungimiranza che la situazione contemporanea richiede.
Il partito ha reso possibile storicamente un compromesso tra capitalismo e democrazia che ha consentito uno sviluppo notevole, attenuando gli effetti dirompenti della lotta di classe, ma si è logorato su questo ruolo. Occorre ora tornare a pensare in grande, a immaginare grandi forze nazionali in grado di offrire una tendenza diversa al futuro.
La società industriale ha bisogno, per la sua conservazione e il suo sviluppo, di un tessuto etico di responsabilità e di iniziativa personale e di una sintesi di interessi fissata sulla base di una indicazione di fini e di criteri di valore.
Il problema stesso della crisi di identità dei ceti medi emergenti, peraltro in continua espansione, si pone in Italia con caratteri cosi gravi ed urgenti da esigere una proposta politica ispirata a una coerente visione culturale e da una forte tensione morale.
La Democrazia Cristiana conserva nel suo patrimonio e nella sua storia i presupposti per assolvere questo compito.
Tuttavia, senza un grande dispiegamento di energie morali e intellettuali, il recupero del gusto della lotta politica, della testimonianza, della capacità di presenza nel tessuto civile, il collegamento con le espressioni migliori del suo retroterra ideale di estrazione genuinamente popolare, lo sforzo sarebbe inevitabilmente destinato al fallimento.
Di fronte alla Democrazia Cristiana sta un mondo cattolico profondamente diverso rispetto agli anni Cinquanta. Non esiste più oggi un popolo cristiano sociologicamente definibile e individuabile attraverso sue proprie strutture associative di massa, che un tempo erano collaterali e ora non lo sono più.
L'ispirazione religiosa non è più una connotazione popolare della realtà italiana: i cristiani sono minoranza dentro la società secolarizzata, come ha dimostrato anche l'esito dell'ultimo referendum sull' aborto.
E per giunta vi è una cattolicità che, per bocca di padre Sorge, afferma che
«d'ora innanzi il consenso politico dei cattolici dovrà essere meritato attraverso una specchiata moralità e coerenza degli uomini con i valori ai quali si ispirano, attraverso la capacità di interpretare le necessità e le aspirazioni delle classi meno favorite, attraverso la competenza professionale e l'efficacia dei programmi politici di fronte alle sfide della crisi».
Per il partito dei cattolici democratici esistono sintomi di una involuzione irreversibile. La perdita di peso e di consenso nelle aree industriali, nelle più importanti città capoluogo del centro e del nord, relega la DC a una posizione di marginalità e la espone a un pericoloso snaturamento o in senso conservatore o in senso integralistico.
Sarebbe esiziale la riduzione della DC a partito della provincia italiana. Questo è un elemento di ricchezza solo se è coniugato a una rinnovata alleanza con i ceti urbani emergenti, con settori del mondo del lavoro e giovanile e dell'area culturale. Se la DC perde i consensi nell'area popolare e nelle componenti ideali del suo retroterra culturale, diviene subalterna all'area laica, consegna il paese all'alternativa di sinistra, con un'inevitabile spaccatura della società italiana, fino alla scomparsa del movimento cattolico su posizioni democratiche, con forti radici popolari e ancora solide basi organizzative nella società civile.
Ma un partito popolare di ispirazione cristiana deve essere oggi, molto più che in passato, un partito di iniziativa politica e di proposta, non solo rappresentativo di interessi.
E allora bisogna ricostruire il partito, dargli un assetto, regole che siano funzionali all'obiettivo proposto. E sul terreno della laicità, della ricerca culturale e politica, di un rinnovato impegno storico che, ancora una volta, si può dare continuità alla Democrazia Cristiana. Ma un partito non è per la definizione che se ne dà, ma per come sa vivere tra la gente, sa interpretarne i bisogni e orientarli secondo una propria ispirazione, avendo a cuore il bene comune. Ecco allora la centralità del problema della struttura e dell'assetto istituzionale del partito.
7. La questione morale e le «regole» della nuova Democrazia Cristiana
La questione morale è problema fondamentale per un partito che si richiama all'ispirazione cristiana. Di fronte al tentativo strumentale di criminalizzare la DC e di dipingerla come il simbolo di tutti i fenomeni negativi della società, vi sono stati anche comportamenti compromettenti, non trasparenti di uomini del partito che sono rimasti impuniti. Penso alle migliaia e migliaia di amministratori che servono la comunità con competenza, con onestà, con spirito di sacrificio: sono l'anima migliore del partito. E perché devono essere dileggiati, insultati, resi corresponsabili di vicende che non hanno nulla a che spartire con la loro rettitudine? E perché continuamente esponiamo all'imbarazzo, al dubbio, quando non alla sfiducia, quei tanti elettori che conducono la loro vita con semplicità e con onestà?
Il prestigio e la credibilità del partito vanno difesi proprio per costoro, ristabilendo una magistratura interna intransigente, inflessibile, veramente al di sopra delle parti, e non espressione, come accade oggi, delle correnti.
Ma occorre recuperare, ciascuno la sua parte, l'idea che la politica e l'impegno pubblico è servizio, e quindi sacrificio, rinuncia, dedizione, distacco; che per poter servire degnamente gli altri è doveroso prepararsi ed è serio essere a disposizione per quegli incarichi nei quali pensiamo coscientemente di aver qualcosa da dare; che, mentre si esercita un incarico pubblico, bisogna preoccuparsi della credibilità, della trasparenza di ogni atto, perché all'uomo pubblico in quanto tale non può essere consentita l'assoluzione per insufficienza di prove; perché il solo sospetto non è lecito in politica ed è giusto che chi è indiziato si tiri da parte. Tutto questo non è forse ancor più doveroso per chi milita nella Democrazia Cristiana e deve sentirsi vincolato a testimoniare ideali e valori che toccano nel più profondo la coscienza degli uomini?
Ma la questione morale investe ormai il fenomeno del correntismo che ha raggiunto livelli inaccettabili. Esso paralizza ormai la vita del partito, non gli consente di investire risorse, uomini nell'ambito dell'elaborazione, di calarsi nella vita della gente.
Lo stesso meccanismo viziato delle iscrizioni, l'immobilismo di molte sezioni, la rigidità del sistema proporzionale, la lottizzazione del potere interno, l'utilizzo strumentale delle istituzioni sono funzionali alla conservazione e all'accrescimento delle posizioni di potere che singoli e gruppi hanno conquistato dentro il partito.
In condizioni storicamente mutate si fa pressante la necessità che l'asse del partito si sposti più nettamente dalla società politica alla società civile.
Questo non è possibile finché la vita della DC sarà dominata dalle correnti attuali, gruppi di potere chiusi, impermeabili a qualsiasi sommovimento o sollecitazione esterna, con i loro bilanci, le loro sedi, le loro strutture organizzati ve, le loro gerarchie.
Oramai anche quelle che hanno alle spalle una giustificazione storica sono ridotte a puri aggregati a sostegno di vicende personali e comunque prive di un necessario respiro culturale.
Sono certo che voi che mi ascoltate siete animati da un'autentica tensione morale e da un forte desiderio di libertà e di autonomia. Ebbene bisogna emarginare nel partito la logica dei capitani di ventura, pronti a mutare alleanze quando se ne può ricavare qualche vantaggio immediato oppure a vendersi al miglior offerente. Più volte in questi mesi ho insistito perché si chiudano le sedi di corrente, magari mettendole a disposizione del partito per crearvi centri culturali, e ci si mobiliti tutti insieme per ricostruire anche organizzativamente e operativamente la Democrazia Cristiana bresciana.
Proprio questa è la fase propizia per una semplificazione delle posizioni all'interno attorno alle idee che contano, ai contenuti che si considerano qualificanti per la ripresa di iniziativa e proposta politica del partito. Rivolgo un appello a tutti perché fin da questa Assemblea emergano indicazioni chiare in questa direzione.
E badate, dirigenti della periferia, amministratori, che un vostro gesto di libertà e di autonomia, di fede vigorosa negli ideali della Democrazia Cristiana è quanto mai necessario.
La ridefinizione dell'idea democratica cristiana è compito impegnativo e affascinante per il quale occorre il concorso di tutti, mentre dobbiamo assolutamente impedire che chiunque possa fare uso e consumo privatistico di una tradizione, di una storia di uomini, di sacrifici, di abnegazione, di speranze sofferte e di fedi generose.
Allora anche il sistema elettorale deve superare la proporzionale pura, pur garantendo la possibilità di rappresentanza delle minoranze. Considero in questo senso utile andare verso il sistema maggioritario con la possibilità di preferenziare le persone, che favorisce il formarsi di una forte leadership di livello nazionale, capace di offrire una immagine personale del partito come esige la dinamica delle democrazie moderne legata per tanta parte ai mezzi di comunicazione di massa. Questo meccanismo favorisce il delinearsi di posizioni chiare, consente l'alternanza al potere nel partito, garantisce sulla continuità, sulla stabilità e sulla possibilità di dispiegamento di una linea politica. Così pure l'elezione diretta dei segretari a ogni livello da parte delle assemblee (nelle sezioni) o dei congressi ai livelli superiori garantisce la èontinuità e la stabilità della funzione esecutiva; e per rafforzare l'autonoma responsabilità della funzione esecutiva il segretario deve poter nominare direttamente tutti i responsabili di uffici esecutivi.
Va, in sostanza, definita nel partito un'autorità funzionale rispetto allo scopo che si vuoi ottenere.
Per ridurre il potere improprio delle correnti va riaffermato che al partito spetta la priorità nella definizione della linea e dell'indirizzo politico cui dovranno attenersi gli eletti, mentre ricadono sulla responsabilità istituzionale di chi ricopre incarichi pubblici esecutivi l'attuazione della linea e degli indirizzi del partito e le stesse nomine di competenza istituzionale.
Inoltre, per scoraggiare il ricorso al gonfiamento dei tesserati, va adottata la norma che nelle assemblee sezionali e provinciali il voto per l'elezione dei delegati sia espresso al termine del dibattito, senza possibilità di deleghe, solo dai presenti al dibattito stesso.
La stessa richiesta di iscrizione al partito, prima del rilascio della tessera, dovrebbe prevedere una fase di avvicinamento e di inserimento nella vita della sezione. La quota di iscrizione al partito potrebbe essere differenziata su diverse fasce di reddito così da personalizzare l'atto di adesione e da recuperare il principio dell'autofinanziamento.
Un'altra riforma decisiva in questa fase della vita del partito concerne il ricambio della classe dirigente.
Troppi quadri ai vari livelli, anche sezionali, sono attenti più ai posti di potere che ai problemi della società, intenti a calcolare le percentuali di tessere piuttosto che a rilanciare e qualificare la presenza del partito nella società civile.
Anche il professionismo politico, che è l'antitesi del servizio, e che riguarda in verità anche gli altri partiti, è parte di questo meccanismo. Bene ha fatto l'ultimo congresso provinciale a fissare alcune regole tendenti a fermare questa degenerazione. Ma occorre andare avanti. Non è credibile un «servizio» cercato come una professione stabile, una rendita vitalizia. E una così ambita carriera politica a creare un circolo vizioso tra fortune personali, correnti e clientele.
Se le norme circa il limite di qualsivoglia mandato o incarico, da elezione o da nomina, politico o amministrativo, fossero introdotte nello statuto del partito, non solo si spegnerebbero egoistiche ambizioni, ma cadrebbero incrostazioni affaristiche, si rinnoverebbero con alte frequenze quadri di partito, amministratori locali e regionali, parlamentari e uomini di governo, con il vantaggio di un flusso costante di nuove istanze ed esperienze in grado di collegare la politica alla vita e al lavoro, di saldare insieme partecipazione e rappresentanza democratica.
Ma soprattutto si darebbe in concreto al periodo di vita politica il senso autentico di un «periodo di servizio», fatto con sacrificio personale da un cittadino a vantaggio dei concittadini.
Si introdurrebbe infine il meccanismo dell'avvicendamento degli incarichi che consente di utilizzare ai livelli più diversi competenze acquisite, un interscambio di esperienze e una valorizzazione delle stesse.
Per quanto riguarda le cariche negli enti, ritengo buona norma stabilime la durata in base al rischio di infeudamento. Cosi pure per scongiurare qualsiasi uso strumentale di un incarico importante, riterrei utile che chi esaurisce il periodo stabilito, per un certo lasso di tempo non assuma altri incarichi.
Cosi l'avvicendamento legato a criteri di competenza oggettivamente verificabili è un problema che non può più oltre essere eluso, a meno di non voler rendere astratta ogni intenzione di recuperare il rapporto tra il partito, nelle sue articolazioni istituzionali, e l'entroterra culturale che ne individua le idealità e ne sollecita i progetti.
Bisogna superare la convinzione che la politica abbia sue regole particolari, irriducibili a quelle proprie dell'economia, della finanza, della diplomazia, del diritto e quindi esiga una professionalità specifica.
Non sono comunque sufficienti alcune regole per cambiare il modo d'essere del partito. A questo punto è la coscienza di ciascuno di noi, la fede nell' idea democratica cristiana che ci può dare la forza e il coraggio di liberarci di quanto di vecchio ci portiamo addosso per avviare una stagione nuova per la Democrazia Cristiana. Non è più tempo di parole. Occorrono fatti, segnali, gesti perentori.
Abbiamo alle spalle un Congresso che ci ha consegnato alcune indicazioni precise e impegnative e ci ha consentito di rianimare in questi mesi la vita del partito.
L'Assemblea provinciale non può che dare un'altra spinta al processo di rinnovamento. Abbiamo chiamato, oltre che la periferia del partito, anche quelle realtà esterne, rappresentative di esperienze culturali, ecclesiali, professionali, associative che sono espressione del ricco retroterra civile e religioso della Democrazia Cristiana.
Insieme intendiamo costruire concretamente il partito nuovo, un partito di cattolici democratici che continui a svolgere un ruolo di guida non solo per ciò che è stato ma per quanto sapremo farlo vivere anche in futuro all'interno della società bresciana.
In questi mesi mi sono sforzato di rendere un pur modesto servizio al Partito e, per avermelo reso possibile, desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno dato una mano.
Ora, cari amici, è questa Assemblea che deve assolvere a questo servizio per la Democrazia Cristiana. lo mi auguro che lo faccia, che voi tutti lo facciate, con grande senso di misura e con una piena assunzione di responsabilità.
Un momento tanto impegnativo richiede da tutti noi il massimo della serenità e della dedizione. Davvero, ciascuno di noi da solo non conta. Conta il futuro della DC al servizio del popolo italiano e della sua libertà.
Se il cristiano - dice Van der Meer - non sa operare per rendere abitabile la terra per l'uomo, egli è un bugiardo. Auguro che questa Assemblea e quanto faremo in futuro siano momenti di grandi verità.
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