UNA STAGIONE PASSATA?
Non è facile riflettere su questi dati contrastanti. Il primo pensiero, e certamente il più giusto, è che le persone contano più degli avvenimenti. Quel che è eterno in loro vive in modo perfetto, alla presenza del Signore, e in modo imperfetto nella memoria degli amici, che si sono riconosciuti fra loro lavorando insieme. Le circostanze sono tutte tramontate, i discorsi e gli atti di allora non sono più ripetibili, ma qualcosa che c'era in più, nelle parole e negli atti del nostro amico - la baldanza, la generosità, la serena accettazione del rischio? - rimane un valore permanente, che sollecita tutti noi esattamente come allora.
lo ero arrivato a Brescia negli anni Settanta, e avevo incontrato Gervasio Pagani in un gruppo già formato. Ero venuto qui per una scelta ragionata, dopo aver conosciuto (attraverso il lavoro tecnico con Luigi Bazoli) una società solidale, vicina al mio modo di pensare. Ogni rapporto personale avveniva sullo sfondo rassicurante di un'identità collettiva: la pattuglia bresciana dei cattolici democratici, che figurava (benissimo) nella schiera più vasta della Lega Democratica. Venendo da fuori non ero attrezzato a far distinzioni dentro il gruppo, e ho certamente sopravvalutato più tardi la sua solidità, quando lo scenario politico è cambiato. Può darsi che il ricordo di Gervasio, per me e per molti altri, sia anche un mezzo per rivivere un affiatamento collettivo che col tempo è venuto meno, e se è così bisogna andare oltre questo sentimento, che oltre tutto diminuisce la figura reale del nostro amico scomparso.
Mi sono chiesto spesso come lui avrebbe reagito agli avvenimenti che si affollano nell'ultimo decennio: la mancata difesa del gruppo dirigente bresciano a cavallo delle elezioni amministrati ve del 1990, il tramonto dei partiti tradizionali, il nuovo quadro politico ed economico, l'incertezza del futuro. La risposta a queste domande è nascosta nel mistero della chiamata, che il Signore ha voluto fargli alla vigilia di tutti questi cambiamenti. Vuol dire che noi, accettando la scelta impenetrabile della Provvidenza, dobbiamo ricordarlo com'era: intransigente nel sostenere le sue opinioni in ogni circostanza favorevole e sfavorevole, capace di accordarsi o di scontrarsi, a ragion veduta, con tutti i componenti della scacchiera politica di allora, e secondo le regole di allora che sembravano permanenti. Ha vissuto pienamente, e al meglio, il tempo che gli è stato dato.
A noi spettano altri compiti, in un quadro ben diverso: i soggetti politici non sono più accertati, ma piuttosto da inventare; le parole d'ordine - destra, sinistra, progresso, conservazione - sono diventate problematiche; l'orizzonte delle previsioni si è accorciato, e viene a mancare la stabilità politico-amministrativa, necessaria a condurre ogni lavoro a lunga scadenza. Fra le virtù occorrenti al tempo di Gervasio, alcune servono ancora e altre no. La generosità è utile, ma l'ottimismo conduce in molti casi fuori strada. Molti di noi hanno dato credito a un'avventura effimera come quella della Rete (penso soprattutto al lungo, gravoso e ingrato lavoro di Riccardo Imberti; e io non posso certo dar giudizi, dopo aver firmato il manifesto iniziale del movimento, insieme a personaggi attualmente dispersi nei luoghi più strani dello scenario politico). Adesso c'è l'Ulivo: sarà una strada giusta, oppure un altro tentativo illusorio, attraente solo perché ricalca in qualche modo la «solidarietà nazionale» di vent'anni fa? È diventato pericoloso andare «dove ti porta il cuore». Serve più che mai la lucidità, e persino la diffidenza. Nella massa di parole e immagini che abbiamo intorno - centuplicata da dieci anni a questa parte - bisogna saper discriminare severamente. I risultati del lavoro sul campo (penso soprattutto alla pianificazione del territorio e all'assistenza per i deboli) non servono a convalidare i programmi politici esistenti, ma piuttosto a prepararne altri possibili nel futuro.
È il momento giusto per studiare storicamente e giudicare con obiettività la lunga storia della sinistra democristiana; ma le forme con cui questa tradizione vien riproposta, nei tre spezzoni superstiti della DC, sono ugualmente non credibili. Della sinistra ex comunista, che in qualche modo tenta di rimanere unita, è persino prematuro fare una storia, finché resta in sospeso una scelta duratura. Una destra moderna è ancora da inventare. E nessun'altra formazione politica riesce finora a svolgere un ruolo che non sia subalterno e strumentale. Si apre l'alternativa di lavorare nonostante tutto nei partiti che ci sono, cercando di mantenere un distacco critico, oppure di tenersi fuori cercando di non chiudersi in una posizione individuale.
Dobbiamo accettare, fra le difficoltà del nostro tempo, anche l'accelerazione che rende sempre più lontane le circostanze del lavoro di Gervasio Pagani. Ci resta l'essenziale: il suono indimenticabile di una voce, e tre sorrisi femminili, che noi conserviamo nella mente ma non potremo trasmettere ai più giovani.
Appunti di Cultura e di Politica
Mensile della Lega Democratica
Anno X – N. 8 – Ottobre 1987
Ricordo di Gervasio Pagani
Di Leonardo Benevolo
I miei amici di Brescia hanno conosciuto Gervasio Pagani molto prima e molto meglio di me. Ma venendo da Roma e avvicinandomi una dozzina di anni fa all'ambiente di questa città, ho riportato di lui un'impressione più contrastata, che voglio cercar di comunicare, in questa occasione, a tanti altri amici che non hanno avuto la fortuna di incontrarlo.
Le idee politiche e morali di Gervasio mi erano familiari, perché le avevo scelte anch'io durante e subito dopo la guerra, a quando la caduta del fascismo aveva lasciato la mia generazione con le spalle leggere, pronta a impegnarsi in una società democratica ancora da costruire. Per quanti fossero gli ostacoli degli interessi e delle abitudini precedenti, che avevamo toccatto con mano, ci sembrava che la fermezza delle nostre scelte, e la capacità d'intesa individuale fra persone appartenenti a diverse tradizioni politiche, sperimentata durante la Resistenza, bastassero a qualunque proposito.
Queste aspettative sono state lentamente frustrate, e si è aperto il dilemma di abitursi ai compromessi, conservando un inserimento nelle istituzioni, oppure di conservare l'intransigenza, perdendo contatto con esse e restando in qualche anticamera: le associazioni culturali, i luoghi di studio, il lavoro privato, la pubblicistica.
Tutte e due le alternative conducevano a una distorsione del proprio impegno, e l'attenzione ai grandi temi non compensava il ruvido contatto con la realtà: votare D.C. a Roma significava esser solidali con Evangelisti.
A Brescia sono arrivato a un'età che mi consentiva di avere un figlio dell'età di Gervasio. Quando l'ho incontrato, ho rivisto me stesso giovane, ma liberato dal dilemma che mi ero abituato a ritener inevitabile, e più maturo di me allora: la convinzione dei discorsi (la voce indimenticabile, sempre caricata), la contagiosa sicurezza di poter migliorare le cose e trovare un accordo fra le persone di buona volontà mi ricordavano vividamente l'atmosfera del 1945. Però la concretezza dei propositi, la confidenza di lavorare collettivamente in un ambiente congeniale come premessa dell'incontro con gli altri, e di condurre a buon fine i propositi concordati fra tutti, erano qualcosa dì nuovo e inaspettato.
Allora Gervasio aveva circa venticinque anni; avevo conosciuto a Roma moltissimi giovani come lui, ben orientati e generosi, ma delusi, umiliati, rimasti per questo disperatamente infantili; al loro confronto, lui era un adulto, generoso ma equilibrato, realistico, costante. Intorno a lui ho scoperto un ambiente compatto e politicamente evoluto, dentro cui e con cui Gervasio era cresciuto e operava. Ho anche costatato che Gervasio non era un'eccezione; era il più vivace di un gruppo numeroso (i tanti amici comuni, che qui non voglio nominare, perché lui in qualche modo li rappresenta tutti), e ho imparato che la politica vera si fa in gruppo; non basta esser coraggiosi, ma bisogna saper dare e ricevere coraggio, e così valere per due, per tre, per molti.
Poco dopo ho scoperto Coccaglio: il piccolo paese dove Gervasio viveva e dove un gruppo di giovani come lui, avendo preso in mano dal '75 l'amministralone comunale, svolgeva un programma di opere pubbliche da far invidia a una città. Poteva essere una coincidenza, e intorno a Brescia esistevano almeno una decina di piccoli comuni amministrati, se non così bene, in modo abbastanza simile.
Poi ho visto l'impressionante partecipazione della cittadinanza di Coccaglio alla tragica morte di Gervasio e della sua famiglia: l’ accoglienza all’arrivo delle quattro bare, e la cerimonia dei funerali, dove insieme il dolore e alla commozione si manifestava - in magnifica combinazione - la fierezza di sentirsi tutt'uno, di tenere in mano le proprie cose, di sentirsi solidali: gli stessi sentimenti che Gervasio da vivo comunicava agli altri, e che misteriosamente un'intera collettività rinnovava in suo onore.
Gervasio rimane per me il vivido volto di tutte queste situazioni, che ora mi legano all'ambiente bresciano. Lo ricordo con un sentimento complesso, di pena per la sua giovinezza spezzata, di consolazione per aver coltivato e fatto fruttare, una generazione più tardi, gli ideali intravisti e sfuggiti alla mia generazione, e di rispetto per il maestro di politica che ho incontrato in ritardo, troppo vecchio per profittare pienamente del suo esempio.
C'è poi un pensiero inquietante, che esprimo con esitazione. Gervasio mi è sembrato dapprima invincibile, capace di arrivare a qualsiasi traguardo, con la sua cadenza sostenuta, simile a una forza della natura; per lo meno nel suo ambiente locale, da cui prendeva forza continuamente come un Anteo della politica. Negli ultimi anni non era più così. Il suo ambiente mutava - in peggio - mentre lui era sempre lo stesso, e cominciava a sentirsi fuori posto.
Nella sua fisionomia di padrone delle situazioni ho cominciato a intravedere l'ansietà dell'idealista deluso, che avevo incontrato in troppe altre facce di suoi coetanei.
Ora lui è scomparso, cancellato insieme alla sua famiglia da una fatalità inaccessibile, e l'ambiente della politica italiana e bresciana continua - in diversa misura - a diventar peggiore. È assurdo collegare in qualunque modo questi due fatti, ma le due tristezze si sommano inevitabilmente. Gervasio è stato un dono di breve durata, e dobbiamo esser lieti che ci sia stato dato, senza presumere di capire perché ci sia stato tolto così presto. Forse anche la stagione della solidarietà popolare e delle riforme riuscite si sta chiudendo, e sarà ricordata come una parentesi in una gravitazione complessiva verso il peggio (gli Evangelisti che ho lasciato a Roma, temo che stiano spuntando anche a Brescia) ma di questa situazione possiamo e dobbiamo studiare le cause e i rimedi, perché tutti ne siamo in qualche misura responsabili. Gervasio non si era rassegnato, e dobbiamo fare come lui vorrebbe.
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